Alberto Trentini, 45 anni, cooperante veneziano, è detenuto in Venezuela dal 15 novembre. Accusato di terrorismo, un’accusa tanto pesante quanto nebulosa, in un paese dove la trasparenza giudiziaria è un lusso sconosciuto e i rapporti con l’Italia sono tesi. Da quel giorno, il silenzio è diventato l’unico interlocutore per la sua famiglia e i suoi amici.
La sua è la storia di chi dedica la vita agli altri: in missione con l’ong Humanity & Inclusion, Alberto lavorava con persone con disabilità, lontano dai riflettori, vicino alle fragilità. Eppure, oggi il suo nome è intrappolato in un’accusa che sa di pretesto politico, un bersaglio facile in un contesto internazionale complicato.
La diplomazia italiana, con il ministro degli Affari esteri Antonio Tajani, ha dichiarato di essere al lavoro, ma i risultati latitano. Il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha chiesto di poter incontrare Trentini, ma la burocrazia e le tensioni bilaterali sembrano più forti della volontà di risolvere la vicenda.
Intanto, la società civile non resta a guardare. Amici e concittadini si mobilitano: fiaccolate, raccolte firme, presidi in piazza San Marco. Non è solo una questione di affetto, è un grido collettivo contro l’indifferenza. Perché ogni giorno che passa senza notizie è un giorno in più di ingiustizia.
Tenere alta l’attenzione non è un esercizio retorico. È un dovere civile. Perché la storia ci ha insegnato che l’oblio è il primo alleato degli abusi. Alberto Trentini deve tornare libero. Nonostante tutto. Perché salvare uno significa non abituarsi mai a perdere tutti.