Il New York Times l’ha chiamata *retribution list*: l’elenco dei nemici che Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, punterebbe a colpire per vendicarsi di quattro anni che il tycoon chiama, senza ironia, una crociata contro il “deep state”. Dentro ci sono alti funzionari, giudici, giornalisti e persino ex alleati repubblicani colpevoli di aver tentennato davanti alle sue derive più estreme. Non è solo Trump: è il marchio del revanscismo che questa destra dissemina da Washington a Roma, portando il conflitto personale al centro della politica.
Nel mirino ci finiranno innanzitutto le istituzioni che hanno osato indagare, ostacolare o regolamentare: l’FBI, il Dipartimento di Giustizia, chiunque rappresenti quel bilanciamento dei poteri che Trump ha sempre letto come una scomoda burocrazia. La sua ossessione non è nuova. La novità, semmai, sta nella normalizzazione della vendetta come strategia politica. E qui, guardando oltreoceano, non serve grande fantasia per vedere gli echi di Giorgia Meloni: basti pensare agli attacchi sistematici contro la magistratura, i media critici, o le organizzazioni che difendono i diritti civili.
La domanda, però, è un’altra: cosa accade quando il nemico diventa il collante del consenso? Si crea un vuoto in cui l’agenda politica si riduce a una lunga lista di bersagli. Più che una crociata, è l’autobiografia di un progetto senza futuro, dove chi osa dissentire non viene contestato ma delegittimato. E forse è proprio questo che fa più paura: non i nemici di Trump, ma il silenzio che verrà dopo.