L’insediamento di Donald Trump come 47° presidente degli Stati Uniti, fissato per il 20 gennaio 2025, promette di trasformarsi in uno spettacolo globale di convergenza populista. Non solo un’assunzione di potere, ma una celebrazione della rete internazionale di leader che trovano nella retorica nazionalista e sovranista il loro terreno comune. Una parata di nomi che sembrano estratti da un’enciclopedia del populismo contemporaneo, pronti a calcare il tappeto rosso della Casa Bianca con l’ardore di chi sente di stare scrivendo una nuova pagina di storia.
Un’alleanza transcontinentale: dal Sud America all’Europa, i sovranisti convergono a Washington
A rappresentare l’America Latina ci sarà Javier Milei, il presidente argentino noto per il suo linguaggio incendiario e le politiche economiche estreme. Milei non nasconde l’ammirazione per Trump, definendolo un “faro di libertà”. Una sintonia naturale, quella tra i due, che li rende simboli di un asse transcontinentale del dissenso anti-establishment. Accanto a lui, Santiago Abascal, leader del partito spagnolo Vox, che si è guadagnato l’invito non solo per le sue posizioni ultraconservatrici, ma anche per la sua guida del gruppo europeo “Patriotas”, una coalizione di partiti di estrema destra che comprende Marine Le Pen, Matteo Salvini e Viktor Orbán.
E Orbán non poteva mancare. Il primo ministro ungherese è stato tra i primi a congratularsi con Trump per la sua vittoria e la sua presenza è un segnale inequivocabile di un’alleanza che va ben oltre le cerimonie ufficiali. Dalla Germania, arriverà Tino Chrupalla, co-leader di Alternativa per la Germania (AfD), che vede in Trump un modello di successo nella lotta contro il globalismo e l’élite liberale.
L’assenza di Marine Le Pen, impegnata nella preparazione delle elezioni europee, non passerà inosservata, ma sarà compensata da una folta rappresentanza del suo partito, il Rassemblement National. Una scelta che sottolinea come il fronte populista europeo consideri l’America di Trump un laboratorio politico da osservare e, possibilmente, imitare. Persino Matteo Salvini, dopo un periodo di appannamento mediatico, sfrutterà l’occasione per riaffermare il suo ruolo internazionale, sperando di rilanciare la sua immagine offuscata in patria.
La lista degli invitati è anche un termometro delle nuove alleanze globali. Jair Bolsonaro, che ha definito Trump il suo “mentore”, sta facendo i salti mortali per partecipare, nonostante le sue vicende giudiziarie in Brasile. Le sue ultime dichiarazioni lasciano poco spazio a dubbi: “Sarò lì, costi quel che costi”. In compenso, l’assenza del presidente cinese Xi Jinping e del primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu segnala le tensioni geopolitiche che questa cerimonia non farà che acuire.
La sfida geopolitica del populismo globale: un manifesto dalla Casa Bianca
Tra una fanfara e le provocazioni, l’insediamento di Trump si configura come un raduno mondiale del populismo. Ogni leader presente porta con sé un bagaglio di slogan, politiche divisive e ambizioni personali, ma è l’immagine collettiva a colpire: un mosaico di nazionalismi che si uniscono sotto il vessillo di un’ideologia che non si accontenta di essere periferica. La Casa Bianca diventa così il fulcro di una narrazione globale in cui il conflitto tra “noi” e “loro” si sposta sul palcoscenico mondiale.
Donald Trump, nel frattempo, sembra godersi ogni minuto di questa ribalta. Per lui, ogni stretta di mano con Orbán o Abascal è un altro tassello nella costruzione di un impero ideologico che va ben oltre i confini americani. Ma questa è anche la sua sfida più grande: trasformare l’alleanza di convenienza tra populisti in un’eredità politica duratura. La storia giudicherà se ci sarà riuscito. Per ora, il mondo assiste a una cerimonia che sembra più un manifesto politico che un evento istituzionale.