L’afflato amoroso tra Usa e Italia, con l’incontenibile voglia di assomigliarsi il più possibile, da ieri ha un nuovo sviluppo: anche gli Usa potranno fregiarsi di avere un presidente pregiudicato. Donald Trump è stato condannato per avere nascosto i pagamenti di denaro alla pornostar Stormy Daniels. Trump aveva già subito una condanna per frode finanziaria per aver comprato il silenzio dell’attrice di film porno, che aveva minacciato nel 2016, in piena campagna elettorale, affinché non rivelasse di aver fatto sesso con lui.
Prevedibilissima la lagna. “È stato fatto per danneggiare la mia reputazione in modo che perdessi le elezioni e ovviamente non ha funzionato”, ha affermato. “E’ una vergogna per il sistema”, ha detto il presidente Usa. Al giudice Merchant è toccato ricordare che “le protezioni garantite all’ufficio del presidente non sono un fattore attenuante. Non riducono la gravità del crimine né ne giustificano in alcun modo la commissione”.
Ma Trump, come il suo illustre predecessore italiano Silvio Berlusconi, può stare tranquillo. Nell’era della post-verità riuscirà facilmente a risultare una vittima, avrà politici servili che contribuiranno al ribaltamento della realtà, troverà perfino qualcuno pronto a santificarlo e magari dedicargli prima o poi un aeroporto in sua memoria.
Le condanne nelle plutocrazie sono fastidiose pratiche burocratiche da seppellire sotto la propaganda. Attaccare la magistratura del resto serve proprio a questo: a non dovere mai rendere conto delle proprie azioni nemmeno quando sono scritte su una sentenza definitiva. Di definitivo c’è solo la prossima strampalata uscita del presidente. Quella ora è la legge.