Sembrava ormai a un passo la pace tra Hamas e Benjamin Netanyahu, tanto che i media statunitensi e israeliani favoleggiavano di un’intesa già prima di Natale. Invece, l’accordo è ancora in alto mare. La doccia gelata è arrivata dal Washington Post, che, citando una fonte dell’amministrazione americana di Joe Biden, ha rivelato che gli sforzi per raggiungere un accordo per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e per il contestuale rilascio degli ostaggi non hanno segnato progressi nelle ultime ore. Questo ha convinto il direttore della CIA, William Burns, a lasciare Doha, capitale del Qatar, dopo appena un giorno di infruttuose trattative.
Netanyahu non vuole sentire ragioni e manda in stallo l’accordo di pace con Hamas
Questo, spiega il prestigioso quotidiano, non costituisce la pietra tombale sui negoziati, come dimostra il fatto che una delegazione statunitense sta intrattenendo febbrili contatti con i Paesi dell’area per superare l’impasse, ma di sicuro allunga i tempi per arrivare alla tregua. Come sempre, ad ostacolare l’accordo sono le forti divergenze sui punti chiave della proposta tra il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e i diplomatici del gruppo terroristico Hamas. Tra i nodi ancora da sciogliere c’è sicuramente il destino della Striscia, con i miliziani palestinesi che chiedono il ritiro completo delle truppe di Tel Aviv, trovando la ferma opposizione dello Stato ebraico che, al contrario, vuole prendersi in carico “la sicurezza” dell’area.
Un altro punto su cui si fa fatica a trovare la quadra è quello relativo alle controversie sul numero e sull’identità degli ostaggi che Hamas rilascerebbe durante le prime sei settimane, così come sulla selezione e sul numero di prigionieri palestinesi detenuti da Israele che verrebbero scambiati nello stesso periodo. Ultimo punto divisivo, ma non meno importante, è la natura di questo cessate il fuoco, che per Israele deve essere limitato a sessanta giorni, a differenza della richiesta di Hamas, che vuole sia “definitivo” così da impedire che, passato quel periodo di tempo, la guerra riprenda come niente fosse. Divergenze che, per il Times of Israel, riportando fonti israeliane e arabe, richiederanno ancora “diverse settimane” di incerte trattative. “La traiettoria è buona, ma ci sono ancora questioni importanti da negoziare e difficili decisioni politiche che entrambe le parti dovranno prendere”, scrive il quotidiano di Tel Aviv.
I fronti aperti della crisi in Medio Oriente
In attesa di mettere fine a un conflitto sanguinoso, durato fin troppo, la situazione nell’enclave palestinese continua a peggiorare. Nelle ultime ore un gruppo di coloni israeliani ha appiccato il fuoco a una moschea nel villaggio di Madra, in Cisgiordania, imbrattando anche i muri con slogan anti-arabi. A darne notizia sono stati i media palestinesi, citando Abdallah Kamil, governatore del distretto di Salfit, di cui Madra fa parte. Secondo Kamil, l’attacco “non sarebbe mai avvenuto senza la protezione costante che i coloni ricevono dall’esercito israeliano, che permette loro di entrare nei villaggi, scrivere graffiti razzisti e vandalizzare la proprietà”. Per queste accuse, Kamil ha chiesto l’intervento della comunità internazionale “per proteggere il popolo palestinese, la sua moschea e le sue proprietà”.
Drammatica la situazione anche nella Striscia, dove una serie di raid dell’aviazione di Tel Aviv ha colpito due scuole nella parte orientale di Gaza City, causando la morte di almeno 30 palestinesi, tra cui diversi bambini. Un’ennesima strage, almeno stando a quanto riportano i media locali, che viene smentita dall’esercito israeliano (IDF), il quale nega di aver colpito civili, sostenendo, invece, che si trattava di “combattenti di Hamas”. Non è tutto: altre tredici persone sono rimaste uccise durante il bombardamento di alcune case nel campo profughi di Al-Shati, nella parte occidentale della Striscia, e altre quattro vittime si sono registrate nel quartiere di Al-Daraj, nella parte orientale di Gaza City.
Le accuse delle Nazioni Unite a Netanyahu
Come se non bastasse, con la popolazione civile stremata, le forze di difesa israeliane continuano a negare l’accesso nella Striscia alle operazioni umanitarie. A dirlo è il portavoce delle Nazioni Unite, Stephane Dujarric, secondo cui “le restrizioni e altre condizioni stanno severamente impedendo le operazioni umanitarie. Le autorità israeliane hanno negato un’altra richiesta ONU di raggiungere le aree assediate a nord di Gaza per portare cibo e acqua. Come risultato, i palestinesi a Beit Hanoun, Beit Lahiya e parti di Jabalya sono rimasti tagliati fuori dagli aiuti fondamentali di cui hanno bisogno per sopravvivere”.
In tutto questo, Netanyahu sembra deciso a continuare con la sua politica aggressiva. Le forze dell’IDF hanno occupato una nuova località siriana nella regione del Golan, inclusa la città di Rafid, mentre si starebbero preparando per nuovi attacchi contro lo Yemen. Un’eventualità che il gruppo filo-iraniano degli Houthi sta prendendo sul serio, con il portavoce militare, Yahya Saree, che ritiene “probabile l’escalation”, dicendosi certo che i miliziani sono “preparati per una lunga guerra con il nemico israeliano a sostegno dei mujaheddin a Gaza”.