In Italia, l’arte di modellare la propaganda sembra aver trovato il suo culmine con la vicenda delle dimissioni del presidente di Amnesty Israele. Per giorni i media nostrani ci hanno raccontato che Ronen Raz si sarebbe dimesso per dissenso nei confronti del rapporto sull’accusa di genocidio di Israele a Gaza. Un racconto perfettamente aderente al clima politico dominante, tanto da sembrare fatto su misura per confermare pregiudizi più che informare. Ma bastava leggere la lettera di Raz per scoprire tutt’altra verità. “Mi sono dimesso perché non potevo più presiedere un ramo che non trattava i palestinesi come partner uguali, e non potevo avallare una critica al rapporto di Amnesty International che finge di essere un’opinione di una minoranza di esperti, ma è invece poco più che l’espressione di una visione del mondo israelo-ebraica, escludendo le voci palestinesi.”
Non una condanna al rapporto, ma una denuncia precisa della mancanza di equità e rappresentazione nelle dinamiche interne dell’organizzazione. Eppure, la narrazione italiana ha scelto di omettere il cuore del messaggio, trasformando un atto di critica verso la governance di Amnesty in un apparente rifiuto ideologico del rapporto su Gaza. Perché? Forse perché una narrativa più complessa, che includa le contraddizioni e i limiti delle istituzioni umanitarie, è meno digeribile per un’opinione pubblica abituata a schierarsi su fronti netti. Le dimissioni di Raz non sono un endorsement acritico per una parte o per l’altra, ma un richiamo al valore del dissenso costruttivo. Un valore che, tra le righe di tante testate, sembra essere stato sacrificato sull’altare della propaganda.