Non è solo una questione di sopravvivenza. Le isole del Pacifico, i luoghi che rischiano di sparire sotto il mare gonfiato dai gas serra dei giganti industriali, hanno deciso di puntare il dito. Non con le armi, ma con la legge. Vanuatu, l’arcipelago che i modelli climatici predicono sarà sommerso entro pochi decenni, è al centro di un processo che potrebbe cambiare il modo in cui il mondo definisce il cambiamento climatico: responsabilità giuridica, non più un generico “problema globale”.
La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha aperto oggi audizioni che nessuno può permettersi di ignorare. Non si tratta di una querelle accademica, ma della domanda più scomoda del nostro tempo: gli Stati che inquinano possono essere considerati legalmente responsabili dei danni climatici? La risposta, se arriverà, sarà il risultato di un’iniziativa lanciata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite su richiesta proprio di Vanuatu. Sono stati necessari anni di lobbying internazionale per ottenere quel voto, che ora porta la questione davanti ai 15 giudici dell’Aia.
Il parere che uscirà da queste udienze non sarà tecnicamente vincolante, ma sarebbe superficiale sottovalutarne il potenziale impatto. Negli anni, i pareri consultivi della CIG hanno tracciato linee rosse per le dispute territoriali, definito i contorni delle violazioni dei diritti umani, e ora potrebbero aprire la strada a cause climatiche che non sarebbero più un’utopia. Potremmo trovarci, a breve, in un mondo in cui gli Stati più colpevoli di emissioni devono rispondere non solo ai propri elettori, ma anche ai tribunali internazionali.
Chi paga il conto del riscaldamento globale
La partita non è solo giuridica. È politica, economica, e profondamente morale. Quando la Cina e gli Stati Uniti – i due più grandi emettitori di gas serra al mondo – si presentano all’Aia, è chiaro che la posta in gioco è enorme. Le nazioni del Pacifico, spesso liquidate come vittime passive, ribaltano la narrativa. Non chiedono elemosina, ma riconoscimento: il danno che subiscono è conseguenza diretta delle emissioni altrui. Non è fatalismo, ma causalità scientifica.
Gli ultimi report dell’IPCC parlano chiaro: il livello del mare è salito di circa 21-24 cm dal 1900 a oggi, con un’accelerazione negli ultimi trent’anni. Per nazioni come Vanuatu, questo significa non solo perdere terra, ma anche acqua potabile, biodiversità, economie. La vita quotidiana di chi vive in queste isole è già segnata da eventi climatici estremi che diventano più frequenti e devastanti. Eppure, i finanziamenti promessi dai Paesi ricchi – come i famosi 100 miliardi di dollari annui per il clima – restano una promessa. L’Ocse ha certificato che quella cifra non è mai stata raggiunta, un altro tassello di un sistema costruito sulla retorica.
Le promesse infrante della diplomazia
L’Accordo di Parigi del 2015, celebrato come il punto di svolta per la lotta al cambiamento climatico, non prevede meccanismi di enforcement. Chi inquina e non rispetta gli impegni può farlo impunemente. La CIG, con il suo parere, potrebbe colmare questo vuoto, fornendo un quadro giuridico che altri tribunali – nazionali e internazionali – potrebbero adottare.
Dietro le quinte, però, si intravede il nervosismo. Stati Uniti, Cina e persino l’Unione europea non amano l’idea di trovarsi accusati per inazione o per politiche climatiche troppo lente. Eppure, negare che esista una responsabilità giuridica rischia di indebolire ulteriormente la credibilità di quei Paesi che si autoproclamano leader nella transizione verde. Come puoi dichiararti “campione del clima” quando rifiuti persino di affrontare un tribunale?
L’orizzonte del 2025
Il parere consultivo della CIG arriverà, con ogni probabilità, nel 2025. Ma non sarà la fine. È solo il primo capitolo di una battaglia legale che potrebbe durare decenni. Intanto, il mondo continuerà a bruciare: 2024 potrebbe essere l’anno più caldo mai registrato, spinto da El Niño e dall’aumento continuo delle emissioni di CO₂. Le persone migranti climatiche – termine che oggi sembra ancora troppo astratto – potrebbero raggiungere i 1,2 miliardi entro il 2050, secondo un rapporto della Banca Mondiale.
Ecco perché il caso delle isole del Pacifico non riguarda solo loro. Riguarda tutti. Se un giorno ci sarà giustizia climatica, sarà grazie a quelle nazioni che, nonostante la fragilità geografica e politica, hanno deciso di sfidare il mondo intero. Vanuatu e le altre isole del Pacifico non stanno chiedendo il permesso di sopravvivere. Stanno reclamando un diritto. E se vinceranno, sarà un precedente che nessun inquinatore potrà ignorare.