L’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ora proiettato verso un secondo mandato all’insegna della polarizzazione, ha costruito il suo team con una precisione chirurgica per fomentare divisioni interne e inasprire i rapporti con l’esterno. Ogni nome scelto ha il retrogusto di una dichiarazione di guerra, a volte persino agli stessi principi istituzionali americani. Ma il messaggio è chiaro: gli Stati Uniti di Trump sono pronti a sferrare un attacco commerciale e diplomatico senza precedenti, con la Cina nel mirino.
Nomine controverse: la fedeltà prima della competenza
La prima pietra è stata lanciata con la nomina di Matt Gaetz a Procuratore Generale. Il deputato repubblicano, noto per le sue posizioni ultraconservatrici e per scandali personali imbarazzanti, ha dovuto ritirarsi dalla corsa. Costringendo Trump a rivedere i piani in corsa con la scelta ricaduta sull’ex procuratrice della Florida Pam Bondi alla poltrona di segretario della Giustizia, prima donna a ricoprire questa carica.
Archiviato il caso Gaetz, Trump ha deciso di affidare la Segreteria della Difesa a Pete Hegseth, conduttore televisivo e conservatore senza alcuna esperienza diretta nella gestione della sicurezza nazionale. Hegseth è un falco che ha fatto del nazionalismo una bandiera e della retorica bellicosa uno stile di vita. La sua nomina non è solo una scelta discutibile; è una provocazione destinata ad esasperare le tensioni internazionali, soprattutto con Pechino, dove ogni mossa americana viene analizzata al microscopio.
Il fronte dell’intelligence non è stato risparmiato. Tulsi Gabbard, ex deputata democratica e figura ambigua del panorama politico statunitense, è stata nominata Direttrice dell’Intelligence Nazionale. Gabbard, con il suo passato di incontri controversi e un approccio che oscilla tra il pacifismo e il sostegno a leader autoritari, rappresenta l’ennesima scelta che mette in discussione l’affidabilità degli Stati Uniti come partner internazionale.
L’offensiva contro la Cina: tra dazi e diplomazia muscolare
Ma il vero affondo di Trump arriva con le sue mosse commerciali. Alla guida dell’Ufficio del Rappresentante per il Commercio è stato nominato Jamieson Greer, un avvocato con un passato di battaglie protezionistiche che ha già definito la Cina una “minaccia economica esistenziale”. A fianco di Greer, Howard Lutnick, amministratore delegato di Cantor Fitzgerald, è stato scelto come Segretario al Commercio. Lutnick, noto per la sua visione estrema sul protezionismo, è pronto a trasformare i dazi in un’arma di pressione geopolitica.
Queste nomine delineano una strategia chiara: costruire una squadra non per amministrare, ma per combattere. La “guerra dei dazi” con la Cina, che aveva già segnato il primo mandato di Trump, si prepara a entrare in una nuova fase, più feroce e distruttiva. Mike Waltz, nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, ha descritto Pechino come una minaccia “esistenziale” e ha delineato piani per rafforzare la presenza militare statunitense nel Pacifico. È la diplomazia del bastone, senza alcuna carota in vista.
Non si tratta solo di politica estera, ma di un cambio di paradigma: Trump sembra determinato a trasformare ogni istituzione in un’arma al servizio della sua visione del mondo, una visione che lascia poco spazio al compromesso o alla diplomazia. L’amministrazione Biden, nonostante tutti i suoi limiti, aveva cercato di mantenere un equilibrio con Pechino. Trump, al contrario, sembra voler incendiare quel poco di terreno comune rimasto.
Il risultato è un’America che non solo rischia di isolarsi ulteriormente sul piano internazionale, ma che sembra voler fare di questo isolamento un atto deliberato di autodeterminazione. In questa narrazione, ogni passo verso il confronto con la Cina diventa un capitolo di una storia in cui gli Stati Uniti, più che protagonisti, sembrano anti-eroi di una tragedia annunciata.