La riorganizzazione interna della Commissione europea orchestrata da Ursula von der Leyen è tutt’altro che un passaggio burocratico: è un banco di prova per la sua leadership e, soprattutto, per la tenuta di un’Unione sempre più fragile. L’obiettivo dichiarato è consolidare il controllo sul bilancio comunitario da 1,2 trilioni di euro, un’enormità che la presidente intende gestire accentrando potere nelle sue mani. L’idea sembra chiara: più comandi e meno negoziazioni. Tradotto, meno democrazia interna, più efficienza. Almeno così sperano a Bruxelles.
Cash-for-reforms: un modello che divide l’Unione
La mossa si materializza con il trasferimento di quasi 200 funzionari del dipartimento per le riforme, che confluiranno in quello del Recovery Fund, sotto un’unica struttura. Una fusione che mira a estendere il modello “cash-for-reforms” del Recovery Fund anche al prossimo bilancio settennale 2028-2034: gli Stati membri dovranno mettere sul tavolo riforme concrete per ricevere i fondi europei. Più facile a dirsi che a farsi, specie in un’Unione dove ogni governo ha la sua agenda, spesso in contrasto con quella di Bruxelles.
Ma è qui che emerge il lato politico della questione. Von der Leyen ha bisogno di presentarsi come la leader di un’Europa compatta, capace di rispondere alle sfide globali con un’unica voce. Peccato che dietro il sipario questa compattezza somigli più a un castello di carte. Se l’idea è che per governare meglio si debba avere più potere, allora significa che la maggioranza che sostiene von der Leyen è tutto fuorché salda. Del resto, anche le critiche interne parlano chiaro: questa riorganizzazione rischia di mettere in evidenza più i difetti che i pregi del suo mandato.
L’ambizione di von der Leyen: accentramento o fragilità?
E non è solo una questione di efficienza. Secondo molti funzionari, accorpare due dipartimenti con culture e obiettivi così diversi potrebbe generare più tensioni che soluzioni. Inoltre, la concentrazione del potere decisionale rischia di ridurre la trasparenza, una qualità che Bruxelles fatica già a mantenere in tempi normali. Non sorprende, quindi, che molti vedano in questa mossa un tentativo di “managerializzare” l’Europa, trasformando la Commissione in una sorta di consiglio di amministrazione con von der Leyen nel ruolo di Ceo. Sarà davvero questa la strada giusta?
Poi c’è il capitolo Fitto, uno dei protagonisti italiani di questa partita. Il ministro per gli Affari Europei pare destinato a vedere ridimensionato il proprio ruolo. Per rendere il piano di von der Leyen digeribile, infatti, si ipotizza un modello in cui i poteri nazionali come quelli di Fitto vengano ulteriormente indeboliti. Un paradosso tutto italiano: se il nostro governo voleva meno Europa invadente, ora potrebbe trovarsi con un’Europa ancora più intraprendente e con meno leve nazionali da manovrare.
Non è finita qui. L’approvazione del piano richiede l’unanimità degli Stati membri, un traguardo quasi utopico. I paesi del Nord potrebbero appoggiare la condizionalità dei fondi a rigide riforme, ma quelli del Sud e dell’Est non sono altrettanto entusiasti. E c’è da capirli: chi accetterebbe volentieri ulteriori vincoli in un contesto già complicato?
L’incognita sovranista sul cammino di von der Leyen
Il tempismo non aiuta. Con il voto sulla Commissione europea alle porte, ogni mossa di von der Leyen diventa un bersaglio per i partiti sovranisti, pronti a dipingere Bruxelles come un mostro tecnocratico lontano dai bisogni dei cittadini. E von der Leyen si gioca molto più di una riorganizzazione interna: il suo futuro politico potrebbe dipendere da come sarà percepita questa operazione. Se fallisce, le possibilità di un secondo mandato rischiano di svanire.
La verità, però, è che questa riforma racconta un’Europa spaventata, che tenta di blindarsi attraverso l’accentramento del potere. Forse von der Leyen dovrebbe chiedersi se governare meglio significhi davvero avere più controllo o, piuttosto, saper dialogare con quelle parti dell’Unione che si sentono lasciate indietro. Per ora, resta l’impressione di una Commissione che si racconta forte, ma che nella sostanza appare debole e divisa. Un’Europa con il pugno di ferro, ma i nervi scoperti.