C’è una scena, nella politica globale, che riassume il ritorno di Donald Trump: Mar-a-Lago, un gala sontuoso, e Javier Milei, presidente argentino, accolto come il primo leader straniero dal presidente eletto americano. “In Argentina hai fatto un lavoro incredibile”, ha detto Trump a Milei, riecheggiando quel mantra del “make great” applicato a ogni cosa. Non è solo un endorsement: è una visione del mondo che Trump e Milei condividono, un’idea di leadership che glorifica l’autoritarismo mediatico e la riduzione dei ponti internazionali a passerelle personali. Milei, con il suo cocktail di privatizzazioni radicali e tagli al welfare, sembra la proiezione latinoamericana di quello che Trump immagina per la politica globale. E l’abbraccio simbolico tra i due leader è un messaggio chiaro: l’America Latina si allinea al trumpismo, mentre l’Europa guarda con sospetto.
Trump-Milei, un asse populista che sfida le regole globali
Il presidente eletto degli Stati Uniti non ha perso tempo nel tracciare le linee del suo secondo mandato. Sul fronte commerciale, ha evocato l’introduzione di dazi fino al 25% contro chiunque ostacoli la sua visione di “America First”. Il summit APEC in corso a Lima ne è già stato un banco di prova. Mentre Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, cercava di rassicurare gli alleati sulla continuità del dialogo transatlantico, l’ombra di Trump ha offuscato i negoziati. In Europa, il protezionismo americano viene percepito come una minaccia diretta alle economie chiave, con il rischio di colpire settori come l’automotive e la tecnologia verde. Non sorprende che il silenzio di Bruxelles stia diventando sempre più assordante, mentre si accumulano i segnali di tensione.
In Italia, invece, Matteo Salvini ha già trovato il modo di cavalcare l’onda trumpiana. “L’amministrazione Trump porterà buoni frutti anche da noi”, ha dichiarato trionfalmente, dipingendo il ritorno del tycoon come un’opportunità per rafforzare i legami con gli Stati Uniti. È una strategia politica chiara, che punta a capitalizzare su un’eventuale frattura tra Bruxelles e Washington. Ma il pragmatismo salviniano è lontano dall’essere condiviso su scala europea.
L’Europa tra silenzio e divisioni
Il ritorno di Trump non è solo una questione di dazi e negoziati commerciali. È anche una sfida ai valori democratici e alle istituzioni internazionali. L’inserimento di Elon Musk come capo di un nuovo Dipartimento per l’Efficienza Governativa ne è un esempio emblematico. Musk, noto per la sua visione visionaria quanto controversa, è stato incaricato di “snellire la burocrazia” e tagliare le spese inutili. “Lavorerà gratis”, ha ironizzato Trump, ma il vero prezzo potrebbe essere pagato dalla democrazia stessa. Con un governo che sembra sempre più un esperimento mediatico, il rischio è che gli interessi privati prendano il sopravvento sulle politiche pubbliche.
E poi c’è Milei, il volto nuovo del populismo sudamericano, che Trump ha abbracciato come un alleato perfetto. Privatizzazioni aggressive, welfare ridotto all’osso e una retorica che esalta il leader al di sopra delle istituzioni: è un programma che non solo trova eco nel trumpismo, ma lo amplifica. La collaborazione tra i due potrebbe ridisegnare le dinamiche geopolitiche dell’emisfero occidentale, lasciando l’Europa a guardare da spettatrice impotente. I segnali sono già chiari. Durante il gala a Mar-a-Lago, Milei ha definito i membri della squadra di Trump “veri giganti”, sottolineando una comunanza di visione che non promette nulla di buono per il resto del mondo.
Il monito arriva forte e chiaro. Il ritorno di Trump non è solo una questione americana. È un terremoto che scuote le fondamenta della politica globale, con un’Europa che rischia di essere schiacciata tra il protezionismo americano e l’ascesa di nuovi attori sulla scena internazionale.