C’era una volta una premier che sognava di essere il ponte tra due mondi, ma ha dimenticato che i ponti si costruiscono con solide fondamenta, non con gli specchi. Giorgia Meloni, nella sua personale favola di ascesa internazionale, aveva immaginato di poter interpretare il ruolo della grande mediatrice tra Trump e l’Europa, dimenticando però un dettaglio non trascurabile: per mediare bisogna essere credibili da entrambe le parti. E invece ecco che arriva Steve Bannon, l’architetto del trumpismo, a frantumare questo castello di carta con la delicatezza di un elefante in una cristalleria. “Non abbiamo bisogno di nessuno in Europa”, tuona l’ex stratega della Casa Bianca, aggiungendo quella che suona come una stilettata: “Sii ciò che eri quando Fratelli d’Italia era al 3%”. Traduzione per i non addetti ai lavori: cara Giorgia, smettila di giocare a fare la statista moderata, torna a urlare dai palchi, eri meglio.
Il problema di Meloni è che ha cercato di cavalcare due cavalli contemporaneamente: da una parte l’atlantismo di facciata per compiacere Washington, dall’altra lo strizzare l’occhio ai sovranisti europei. Ma nella politica internazionale, come nella vita, non si può essere contemporaneamente candela e vento. E ora che Trump si prepara a riconquistare la Casa Bianca, il MAGA movement le fa sapere che non ha bisogno di intermediari in Europa: ha già i suoi Le Pen, Farage e Orbán di riferimento. La premier italiana si ritrova così in un limbo politico: troppo moderata per i trumpiani, troppo sovranista per i democratici. Un’ambiguità che porta sempre a un solo risultato: l’irrilevanza strategica.