Se ne parla da quasi due mesi, ma l’annunciata rappresaglia di Israele contro l’Iran ancora non c’è stata. Eppure, sia il primo ministro Benjamin Netanyahu sia il ministro della Difesa Yoav Gallant continuano a ripetere che l’attacco “ci sarà e sarà durissimo”, senza fornire alcuna informazione sui tempi o sul motivo per cui non è ancora stato condotto. A fare chiarezza è il quotidiano The Times, che cita un funzionario anonimo, il quale afferma che dietro questa lunga attesa vi sarebbe la decisione delle autorità di Tel Aviv di rinviare l’operazione contro Teheran a causa della fuga di informazioni militari potenzialmente sensibili avvenuta una settimana fa negli Stati Uniti.
Netanyahu è furioso per la fuga di dati dagli Usa sull’offensiva contro l’Iran, rinvia la rappresaglia e prepara un nuovo piano di attacco
In tale occasione sono stati rivelati i preparativi per un attacco con un massiccio utilizzo di missili aria-terra. Si tratta dei documenti datati 15 e 16 ottobre, che non erano destinati a essere visti al di fuori dell’alleanza di intelligence Five Eyes, composta da Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti, ma che sono finiti sui media di tutto il mondo, causando una forte irritazione nel governo Netanyahu. Secondo The Times, il governo di Tel Aviv avrebbe deciso di rinviare la rappresaglia contro Teheran per poter preparare nuovi piani di attacco.
Il problema è che questa volta Israele potrebbe decidere di agire da sola, senza consultare minimamente gli Stati Uniti, limitandosi ad avvisare Joe Biden solo pochi istanti prima di sferrare l’assalto. Questa situazione ha fatto crescere enormemente le tensioni in Medio Oriente, con il presidente iraniano Masoud Pezeshkian che ha ribadito che il suo Paese non cerca lo scontro perché “le guerre non sono utili a nessuno”, ma che, se colpito, “reagirà in modo fermo e deciso”.
Le nuove accuse a Netanyahu
Mentre il mondo trattiene il fiato di fronte a una possibile escalation della guerra mediorientale, nella Striscia di Gaza e in Libano si continua a morire. Oltre agli ormai quotidiani bombardamenti su Beirut, la capitale libanese, la situazione a Gaza peggiora ulteriormente, dove 16 persone, tra cui diversi bambini, hanno perso la vita e altre 32 sono rimaste gravemente ferite durante un attacco israeliano contro la scuola Al-Shuhada nel campo profughi di Nuseirat, nota per essere il rifugio di centinaia di sfollati. Come sempre in questi casi, l’esercito israeliano (IDF) ha difeso il raid spiegando che la struttura è utilizzata dai terroristi di Hamas, mentre le autorità palestinesi smentiscono e parlano di “atrocità contro i civili”.
Il raid contro la scuola Al-Shuhada ha scatenato le proteste del presidente francese Emmanuel Macron, che ha criticato Netanyahu, affermando che “si parla molto di guerra di civiltà. Non sono sicuro che si difenda una civiltà seminando noi stessi la barbarie”. Ma non è tutto. Durante gli ultimi attacchi, un dipendente dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) è stato ucciso da un missile mentre si trovava a bordo di un veicolo dell’ONU a Deir al-Balah, nel centro della Striscia. Bombardamenti che vanno avanti da ormai un anno e che, secondo il presidente dell’Autorità Palestinese (ANP), Mahmoud Abbas, hanno l’obiettivo preciso di “svuotare la Striscia di Gaza dalla sua popolazione”.
Il dramma di Gaza
Un disastro mai visto che ha spinto la protezione civile di Gaza, come spiegato dal portavoce Mahmoud Basal, ad annunciare “la fine delle operazioni di ricerca e soccorso nel nord” dell’enclave palestinese a causa “delle minacce” poste al proprio personale dagli attacchi delle forze israeliane. Nel frattempo, si allarga ulteriormente il fronte di guerra, con l’aviazione di Netanyahu che ha colpito la Siria con un’ondata di attacchi. Sotto le bombe sono finiti un’area residenziale di Damasco e un sito militare a Homs, causando la morte di un soldato e il ferimento di altre sette persone. A questi attacchi hanno risposto le forze sciite dell’area, con il lancio quotidiano di razzi verso Israele, che, fortunatamente, non hanno causato né morti né feriti, ma che, come facilmente intuibile, allontanano sempre di più le prospettive di pace.