Il neoministro della Cultura Giuli con il suo lunghissimo e pretenzioso discorso si è attirato ironie di ogni specie. Forse era meglio tenersi Sangiuliano.
Nicola Urso
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Gentile lettore, l’aspetto positivo nei 65 minuti del primo discorso pubblico di Giuli è che i vignettisti satirici escono dal tunnel della depressione seguito alle dimissioni di Sangiuliano, che per loro era fonte di vita. Finalmente una schiarita nel cielo della satira. Ci vorrà tempo, il materiale che Giuli offre è ancora grezzo, mentre Sangiuliano dava prodotti finiti ineccepibili, ma è già tanto. Giuli ha cosparso il suo proloquio (senza la s davanti, a scanso di querele) di citazioni astruse e pseudo dotte, nell’affanno di mostrarsi colto, intelligente, intellettuale: e allora vai con “l’infosfera globale”, “l’apocalittico difensivo”, “l’ontologia intonata alla rivoluzione permanente” che si realizza “impugnando un’ideologia della crisi”. Mi fermo qui per pietà, ma lei ha già capito che siamo al classico complesso di inferiorità di chi cerca di superare l’esame “della cultura” e vuole apparire dotto, erudito, vuole sembrare un pensatore, un intellettuale, e finisce per scavarsi la fossa da solo. Quanto a me, francamente preferivo la comicità involontaria di Sangiuliano, roba ruspante, semplice, schietta, prima e dopo l’affaire Boccia. Le mestizie complessate di Giuli mi sembrano tristi rispetto, che so, alla sana comicità popolana di un Marco Marsilio, che governa l’Abruzzo dopo aver scoperto che la regione “si affaccia su tre mari”, di cui due sconosciuti a tutti. Come disse l‘anarchico Bakunin, “una risata li seppellirà”.
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