L’Unione europea è complice delle migliaiadi respingimenti illegali di migranti dalla Turchia verso Siria e Afghanistan. È quanto emerge da un’inchiesta di Politico che getta una luce sinistra sul ruolo dell’Ue nel finanziare e sostenere il sistema turco di detenzione e deportazione dei richiedenti asilo.
La storia inizia nel 2016, quando l’Unione europea, in preda al panico per l’arrivo di un milione di richiedenti asilo l’anno precedente, stringe un patto faustiano con Ankara. In cambio di 11,5 miliardi di euro la Turchia avrebbe dovuto fare da “deposito di rifugiati” per l’Europa, trattenendo sul proprio territorio quasi 4 milioni di persone in fuga dalla guerra in Siria.
Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. E così, mentre Bruxelles si compiaceva di aver “risolto” il problema migratorio la Turchia ha iniziato a utilizzare quelle stesse infrastrutture finanziate dall’Ue per deportare con la forza siriani e afghani nei loro paesi d’origine, dove rischiano persecuzioni e morte.
Il lato oscuro dell’accordo: centri di accoglienza diventati campi di deportazione
L’inchiesta di Politico dipinge un quadro agghiacciante. Centri di accoglienza trasformati in campi di deportazione. Detenuti torturati, picchiati, abbandonati senza cure mediche adeguate. Migranti costretti con la violenza a firmare moduli di “rimpatrio volontario”. E tutto questo con il marchio dell’Unione europea ben in vista: la bandiera blu con le stelle dorate campeggia ovunque, dai sacchetti di sapone ai materassi, quasi a voler ricordare ai detenuti chi sia il vero mandante della loro sofferenza.
La Commissione europea, custode dei trattati e garante dei valori fondamentali dell’Unione, sembra aver chiuso non uno, ma entrambi gli occhi di fronte a queste palesi violazioni dei diritti umani. Nonostante le ripetute segnalazioni di Ong, avvocati, diplomatici e persino del proprio personale, Bruxelles ha continuato a versare fiumi di denaro nelle casse di Ankara, arrivando a stanziare oltre 260 milioni di euro dal 2022 per “rafforzare” ulteriormente il sistema di controllo delle frontiere turco.
Il caso di Sami, un siriano di 26 anni, è emblematico. Arrestato in Turchia e detenuto per mesi in condizioni disumane in un centro finanziato dall’Ue, si è visto negare le cure mediche nonostante fosse gravemente malato. Deportato in Siria contro la sua volontà, è stato rispedito in Turchia per un breve ricovero, solo per essere nuovamente espulso dopo tre giorni. Oggi sopravvive a stento nel nord della Siria, senza i farmaci necessari per curarsi.
Ma Sami è solo uno dei tanti. L’inchiesta riporta decine di testimonianze simili: afghani costretti a firmare documenti di rimpatrio sotto minaccia, ex collaboratori delle forze Nato deportati in Afghanistan e poi uccisi dai talebani, famiglie separate e vite distrutte. E tutto questo con il benestare, se non la complicità attiva, dell’Unione europea.
Migranti, l’Europa di fronte allo specchio: complicità e negazione
La reazione di Bruxelles alle accuse è, come spesso accade, un capolavoro di ipocrisia burocratica. La Commissione si è trincerata dietro la frase “non abbiamo prove di abusi”, ignorando le montagne di evidenze raccolte da giornalisti e organizzazioni umanitarie. Ha parlato di “missioni di monitoraggio regolari”, senza spiegare come queste missioni non abbiano mai rilevato le palesi violazioni dei diritti umani denunciate dai detenuti.
Intanto, il commissario Olivér Várhelyi, responsabile degli affari di vicinato dell’Ue e stretto alleato del premier ungherese Viktor Orbán, sembra addirittura compiacersi dei “massicci ritorni forzati in Afghanistan” operati dalla Turchia. Un atteggiamento che, se confermato, getterebbe un’ombra ancora più inquietante sul ruolo dell’Unione europea in questa vicenda.