Mentre l’Ucraina combatte per la propria sopravvivenza, l’Occidente si invischia in un paradosso: nonostante le sanzioni imposte alla Russia, miliardi di dollari continuano a fluire nelle casse di Mosca attraverso un escamotage nel sistema sanzionatorio.
Un recente rapporto, che verrà presentato congiuntamente dal Center for Research on Energy and Clean Air e dal Center for the Study of Democracy, racconta la contraddizione. Secondo l’analisi, anticipata in esclusiva da Politico, nella prima metà del 2024 gli alleati occidentali avrebbero acquistato carburanti derivati dal petrolio russo per un valore di circa 2 miliardi di dollari. Gli acquisti, tecnicamente legali, sfruttano un “buco” nelle sanzioni che permette di importare prodotti petroliferi di origine russa purché siano stati precedentemente lavorati in un paese terzo.
Il triangolo del petrolio: Russia, Turchia e Occidente
Il principale protagonista di questo triangolo commerciale è la Turchia. Ankara, approfittando degli sconti offerti da Mosca (dai 5 ai 20 dollari al barile), ha incrementato gli acquisti di greggio russo del 34% nel 2023 e addirittura del 70% quest’anno. Tre raffinerie turche si sono specializzate nella lavorazione di questo petrolio a buon mercato, rivendendolo poi sotto forma di benzina, diesel e altri derivati ai paesi occidentali.
“Quando l’Ue importa benzina dalla Turchia, costa il 10% in meno rispetto a quella proveniente dall’Arabia Saudita”, ha detto a Politico Vaibhav Raghunandan, analista del Center for Research on Energy and Clean Air. “Ma questi risparmi non si traducono in benefici per i consumatori: sono le aziende e i commercianti a trarne profitto. Qualcuno sta facendo fortuna con questo commercio, ma non sono certo i cittadini comuni”.
Il meccanismo è tanto semplice quanto efficace: la Russia vende petrolio a prezzi scontati alla Turchia, che lo raffina e lo rivende all’Occidente come prodotto “turco”, aggirando così le sanzioni. Un esempio emblematico è la raffineria Star Aegean, di proprietà azera, che dipende per il 98% dal greggio russo, con il 73% delle forniture provenienti dal colosso energetico Lukoil, sanzionato dagli Stati Uniti. Nonostante ciò, quasi nove barili su dieci prodotti da questa raffineria finiscono nei paesi alleati che sostengono l’Ucraina.
Le conseguenze: finanziamento involontario della guerra russa di Putin
Le implicazioni di questo commercio vanno ben oltre il mero aspetto economico. Secondo il rapporto, i ricavi fiscali che Mosca ricava dalla vendita di questi carburanti ai paesi occidentali consentirebbero alla Russia di reclutare altri 6.200 soldati al mese da inviare in Ucraina. Un dato che fa riflettere sulla reale efficacia delle sanzioni e sulla coerenza dell’approccio occidentale al conflitto.
Già lo scorso anno, Oleg Ustenko, allora consigliere economico del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy, aveva lanciato un appello al G7 affinché imponesse “un divieto per tutti i prodotti raffinati destinati ai paesi del G7” per frenare il flusso di denaro che il Cremlino riesce a ottenere attraverso intermediari come Turchia, India e Cina.
“Quello che sta accadendo è una violazione diretta dello spirito della legge sulle sanzioni”, ha spiegato Martin Vladimirov, esperto di energia del Center for the Study of Democracy. “La nostra raccomandazione è che l’Ue e i paesi del G7 dovrebbero vietare l’importazione di prodotti petroliferi raffinati dal petrolio russo, è semplice come questo.”
Il dibattito su come chiudere questo “buco” nelle sanzioni è più che mai attuale. Alcuni analisti suggeriscono di implementare un sistema di tracciabilità più stringente per i prodotti petroliferi, altri propongono sanzioni secondarie per i paesi che fungono da intermediari. Ciò che è certo è che, finché persisterà questa ambiguità, l’efficacia delle sanzioni contro la Russia rimane una chimera