di Angelo Perfetti
Abiti di bassa qualità e prodotti a basso costo. Lavoro in nero, manodopera al limite (e in qualche caso oltre) della schiavitù. Nessun contratto, niente contributi, niente tasse. Nella maggior parte dei casi nemmeno pagamenti tracciabili, ma tutto cash. Così è difficile sopportare la concorrenza, e le aziende italiane alla fine sono costrette a chiudere. Prato, antico e potente distretto tessile arrivato sulle prime pagine dei quotidiani per la tragedia che ha visto morire in un rogo, intrappolati come topi, 7 operai cinesi, deve oggi fare i conti con la crescita incontrollata di un distretto “parallelo” cinese dell’abbigliamento low cost. Circa 3.700 aziende, quasi 35mila lavoratori tra regolari e clandestini, un giro d’affari di due miliardi di euro; che, attraverso i money transfert, passano esentasse dall’Italia al Sol levante. E questo se parliamo di merce “normale”.
Le griffe rubate
Se poi spostiamo il discorso sulle griffe che fanno del made in Italy un marchio internazionale, allora le cose, se possibile, si complicano. Parlare di contraffazione significa illustrare un fenomeno che non riguarda solo la riproduzione di marchi o modelli, brevetti falsi. La contraffazione riguarda anche il patrimonio di consensi acquisito negli anni da una tradizione manifatturiera, caratterizzata da fattori di qualità, rispetto dell’ambiente, salvaguardia della salute e della sicurezza del consumatore e della filiera produttiva, per ottenere illeciti vantaggi economici senza garantire al mercato analoghi standard. Parliamo della fallace indicazione d’origine dei prodotti e, in modo particolare, del made in Italy, le cui false riproduzioni sono diffusissime in Italia e nel mondo. il fenomeno colpisce certamente tutto il comparto dell’accessorio moda, calzature e pelletteria, che registra tuttora la presenza nei punti vendita di molti prodotti marchiati made in Italy senza che ciò corrisponda effettivamente ad una reale produzione in Italia
L’allarme di Report
Già quattro anni fa, con i reportage trasmessi da Report nel 2007 “Schiavi del lusso” e nel 2008 “Disoccupati del lusso” era stato dimostrato che in quei capannoni di Prato si sfruttava la manodopera cinese anche per assemblare borse griffate del made in Italy. Mani quasi sempre maschili addestrate per mesi, schiavi al servizio della moda fast food. In pochi anni gli imprenditori cinesi sono riusciti a fare il salto di qualità offrendosi come subappaltatori ai terzisti italiani che così hanno evitato di pagare i propri operai sfruttando indirettamente quelli cinesi privi delle tutele elementari, a partire dalla sicurezza sul luogo di lavoro. E’ accaduto così anche nel distretto della scarpa del lusso nella Riviera del Brenta, e in Romagna, dove i cinesi hanno sostituito le imprese italiane artigiane dei divani.
I numeri del business
L’Italia è al top per la produzione di merce di prima qualità. E per questo subisce molti plagi. Il commercio mondiale del falso è circa l’8% del totale: sul mercato planetario esprime un fatturato di circa 350 miliardi di euro, per il 35% derivanti dall’informatica, per il 25% da audiovisivi, per il 12% da giocattoli, per il 10% da cosmetica e per il 6% da farmaceutica. Il 60% di questa enorme torta è nel Sud Est asiatico; in Italia si produce il 7,5% del falso mondiale. Il ‘fatturato’ dei prodotti contraffatti è stimato in circa 6,5 miliardi di euro nel 2013, secondo quanto indica una ricerca Censis-Confcommercio. I prodotti falsi sequestrati dalle Fiamme Gialle sono ogni anno circa 100 milioni.
Tutti complici
Sempre secondo i dati della Confcommercio, il 35,6% dei consumatori italiani ha avuto occasione, almeno una volta nella vita, di acquistare prodotti illegali/contraffatti o servizi erogati da parte di soggetti non autorizzati. False griffe, prodotti commercializzati con un marchio non originale, “scarico” da Internet di musica, film, videogiochi pirata, noleggio/acquisto irregolare di film o videogiochi e utilizzo di servizi – anche di natura professionale – prestati da soggetti senza i regolari permessi, sono tutte facce di una stessa medaglia: il commercio illegale. Tra i prodotti “fuorilegge” spiccano quelli dell’abbigliamento (41,2%), gli alimentari, bevande incluse (28,7%), gli occhiali (26,7%), la pelletteria (26,9%), le scarpe e calzature (21%), i profumi e i cosmetici (18,1%), i farmaci (15,6%) e i prodotti parafarmaceutici (14,9%), spesso acquistati su siti Internet non italiani.