In Italia, terra di paradossi e contraddizioni, c’è una storia che si ripete con regolarità quasi matematica: quella dei contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) scaduti. Un fenomeno che, lungi dall’essere marginale, coinvolge milioni di lavoratori in attesa di un rinnovo che tarda ad arrivare.
I numeri, forniti dall’Istat e riportati da Pagella Politica, parlano chiaro: a giugno 2024, il 36% dei Ccnl risultava scaduto. Tradotto in termini umani, significa che quasi 5 milioni di lavoratori dipendenti aspettano un rinnovo contrattuale. Un’attesa che, in alcuni casi, si protrae da anni. Il dato più allarmante riguarda la pubblica amministrazione, dove il 100% dei contratti è scaduto. Un record negativo che fa impallidire persino il settore giornalistico, dove i contratti attendono un rinnovo da otto anni, precisamente da dicembre 2016.
Il caso dei dipendenti Rai
Il caso dei dipendenti Rai è emblematico. Quasi 10mila lavoratori stanno trattando con l’azienda per rinnovare il loro Ccnl, scaduto alla fine del 2022. Un’intesa iniziale, raggiunta il 17 luglio, è stata bocciata dieci giorni dopo da un referendum dei dipendenti stessi.
Il professor Lucio Imberti dell’Università di Bergamo, intervistato da Pagella Politica, spiega che i contratti collettivi sono espressione diretta delle condizioni del mercato del lavoro. L’inflazione gioca un ruolo chiave: quando cresce poco, la pressione per il rinnovo è bassa. Ma quando l’inflazione aumenta, come sta accadendo ora, la questione retributiva torna al centro del dibattito.
Disparità tra settori e contratti “pirata”
Non tutti i settori, però, vivono lo stesso dramma. Il contratto dei bancari, per esempio, è stato rinnovato a novembre 2023 dopo essere scaduto alla fine del 2022. Il nuovo accordo prevede aumenti medi di 435 euro mensili e una riduzione dell’orario lavorativo di mezz’ora a settimana.
Il professor Marco Leonardi dell’Università di Milano, ex capo del Dipartimento per la programmazione economica della Presidenza del Consiglio, evidenzia come i ritardi nei rinnovi siano meno frequenti in settori produttivi come l’industria. Qui, gli aumenti tendono a essere in linea con l’inflazione, almeno nei contratti stipulati dai grandi sindacati. I contratti “pirata” invece, che sono molto più diffusi in settori come i servizi, spesso non garantiscono aumenti adeguati.
Contratti pirata e salario minimo
I cosiddetti “contratti pirata” vengono sottoscritti da organizzazioni poco rappresentative dei lavoratori e che spesso prevedono condizioni economiche e tutele inferiori rispetto a quelli siglati dai sindacati principali. Questi contratti, proliferati negli ultimi anni a causa della mancanza di regole chiare, rappresentano una sfida ulteriore nel già complesso panorama dei Ccnl.
In questo contesto, il dibattito sul salario minimo assume una rilevanza particolare. Nonostante l’Italia abbia una copertura dei contratti nazionali pari a circa l’80% dei lavoratori, esiste una fascia di lavoratori – stimata intorno al 6-7% della forza lavoro – caratterizzata da forte marginalità e precarietà, per cui l’introduzione di un salario minimo potrebbe rappresentare una tutela importante. Come spiega a Pagella Politica Leonardi il salario minimo riguarda tutti quei lavoratori per cui il contratto collettivo ha valore puramente formale, come per esempio chi fa le consegne, chi lavora nei bar, i giovani che lavorano la sera nel settore della ristorazione.
Già oggi tanti lavoratori, nonostante siano coperti da qualche tipo di Ccnl, guadagnano meno delle 9 euro l’ora proposte dal salario minimo. Forse l’ipocrisia sul mondo del lavoro sta proprio qui: chi non vuole il salario minimo si appoggia a contratti collettivi che comunque sono al palo. I lavoratori intanto si impoveriscono.