Il 2 luglio del 2018 il mercantile Asso28 soccorse una motovedetta della cosiddetta Guardia Costiera libica in avaria. Coordinata dalla nave militare italiana Duilio il mercantile ha trainato la motovedetta libica fino al porto di Tripoli. Lì sopra però c’erano anche 150 migranti restituiti all’inferno che furono successivamente “sottoposti a una diffusa e sistematica detenzione arbitraria” nei lager libici di Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan, con “atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani” che “vengono commessi in relazione alla loro detenzione arbitraria”.
Cinque di loro nel 2021 hanno deciso di ricorrere contro le istituzioni italiane, il capitano del mercantile e la società armatrice. Ieri il Tribunale civile di Roma, con una sentenza firmata dal giudice Corrado Bile, ha condannato l’Italia (Presidenza del Consiglio dei Ministri, i ministeri di Difesa e Infrastrutture) oltre alla società armatrice e al capitano della nave al pagamento di un risarcimento di 15mila euro ciascuno nei confronti di cinque migranti, fra cui un bimbo di due anni e una donna incinta all’ottavo mese all’epoca dei fatti, respinti dal nostro Paese e rimandati in Libia.
Riconsegnare i migranti alle autorità libiche, spiega il giudice, è una palese violazione delle norme e convenzioni internazionali. Una sentenza che non solo condanna l’Italia ma che è anche un monito su una prassi che il nostro Paese reitera continuamente. Anzi, volendo essere più precisi, è una prassi che viene rivendicata da una certa politica come un’enorme vittoria. Quindi quella sentenza dice molto su quello che lo Stato ha fatto e su ciò che sta continuando a fare.