Quando sento le notizie sul bracciante indiano morto a Latina con un braccio amputato da un macchinario spengo la tv. Non ce la faccio. Ma non dovevamo costruire un mondo migliore?
Rita Paoletti
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Gentile lettrice, nei giorni scorsi ho dovuto costringermi, per obbligo professionale, a leggere gli articoli sulla vicenda, ma lo avrei evitato per le sue stesse ragioni. La storia di Satnam Singh, 31 anni, e di sua moglie Sony, 24 anni, entrambi di religione sikh, mi sembra il paradigma di tutte le migrazioni dal Sud del mondo. Quelli che noi chiamiamo “migranti irregolari” dovrebbero essere definiti solo “poveri”, perché nessuno, qualunque sia il colore della sua pelle, è un migrante e tantomeno irregolare, se ha denaro. Satnam Singh e sua moglie volevano un figlio, ma prima aspettavano di mettere da parte qualche soldo, cosa difficile se si lavora a 4 euro l’ora. Poi un macchinario agricolo ha investito Satnam, maciullandogli le gambe e staccandogli un braccio. Il datore di lavoro, anziché portarlo in ospedale, lo ha caricato su un furgone e lo ha lasciato davanti alla porta di casa e accanto ha messo una cassetta della frutta con dentro il braccio amputato. Subito dopo ha chiamato i soccorsi. La disumanità è nelle diseguaglianze, è nell’insostenibile rapporto tra Nord e Sud del mondo, è nelle nostre menti. Da giovani leggevamo i poeti beatnik, la teologia della liberazione, la filosofia di Marcuse: sognavamo un mondo migliore, più giusto. Ma forse non avevamo capito e tutto era chiaro già allora: “Il mondo non è stato fatto per amore dell’uomo e non è diventato più umano” (Herbert Marcuse, 1978).
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