Se un trentunenne di Milano, magari del centro, o del quartiere Monti a Roma fosse stato scaricato dal suo datore di lavoro davanti a casa con un braccio tranciato riposto in una cassetta e la moglie al suo fianco avremmo un quintale di trasmissioni in prima serata pronte a tuffarsi nella pornografia della violenza.
Avremmo avuto, sicuro, qualche decina di approfondimenti sui sogni del ragazzo violentato dal suo capo che l’ha reso mutilato oltre che schiavo, avremmo interviste lacrimevole ai parenti, agli amici. Qualche presunto giornalista d’inchiesta sarebbe da giorni al citofono del titolare della sua azienda per strappare una parola dal giro dei carnefici. Satnam Singh invece ha un cognome cacofonico, si trascinava per qualche spiccio nelle meno interessanti campagne di Latina, nido di braccianti trattati con la disgustata indifferenza che si riserva ai materiali di rublta ai bordi di un cantiere, prima che vengano buttati via. Satnam ha la sventura di abitare il mondo di quegli altri, fuori da noi.
Qualsiasi cosa gli sia successa non tocca l’etica della Patria. La morale nazionale non viene intaccata da ciò che gli italiani fanno agli stranieri. Fosse accaduto il contrario perfino i fascisti sarebbero in piazza. Ieri Satnam è morto, due giorni dopo il suo braccio. La ministra del Lavoro Marina Calderone ha assicurato ancora più incisività al “contrasto al sommerso nella promozione di una cultura del lavoro” mentre il presidente della commissione Lavoro della Regione Lazio, Angelo Tripodi di Forza Italia dice che il caporalato è “una piaga che dobbiamo combattere tutti insieme, senza distinzioni politiche e ideologiche”. Niente speciali in prima serata, però.