La manovra parte già in salita. E anche le misure che il governo vuole confermare andrebbero in realtà riviste, a partire dal taglio del cuneo fiscale. Dall’Ufficio parlamentare di bilancio arrivano richiami, allarmi e anche chiare bocciature al governo Meloni che si prepara – con l’arrivo della procedura d’infrazione europea – a una legge di Bilancio da lacrime e sangue. In occasione della presentazione della relazione annuale dell’Ufficio parlamentare di bilancio, la presidente Lilia Cavallari ha fatto i conti in vista della manovra: confermare nel 2025 solo alcuni degli interventi introdotti con la precedente legge di Bilancio – il taglio del cuneo fiscale, Zes per il Mezzogiorno, la riduzione del canone Rai e la detassazione dei premi – avrebbe un impatto sul deficit pari a circa 18 miliardi.
A cui aggiungere altre spese che solitamente bisogna considerare, come gli oneri per il prossimo triennio contrattuale dei dipendenti pubblici: l’impatto complessivo arriverebbe così poco al di sotto dei 20 miliardi, come già indicato nel Mef. A questa cifra bisogna aggiungere i conti legati alla procedura per deficit eccessivo, il cui peso è pari a circa 10-11 miliardi di correzione l’anno fino a che non si scenderà al di sotto del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Insomma, la prossima manovra parte già con una zavorra da oltre 30 miliardi.
Taglio del cuneo fiscale, sullo scalone un disastro annunciato
Una delle novità che emerge dalla relazione annuale dell’Upb riguarda il taglio del cuneo fiscale. Una misura che viene ritenuta “ovviamente” positiva, ma che è stata introdotta con delle importanti distorsioni. Già sottolineate in passato, ma che il governo ha sempre ignorato. Per l’Ufficio parlamentare di bilancio il sistema per fasce di reddito, anziché uno a scaglioni, “altera il profilo delle aliquote marginali”. Una distorsione che arriva addirittura a “generare una trappola della povertà” quando ci si avvicina alle due soglie di reddito oltre cui lo sgravio contributivo si abbassa o viene cancellato.
Il taglio, infatti, è del 7% fino ai 25mila euro e poi è del 6% fino a 35mila, venendo eliminato sopra questa soglia. La conseguenza è che un aumento di un solo euro di reddito “determina una diminuzione dello sconto e quindi del reddito disponibile”, di cifre anche rilevanti. Perché parliamo di circa 150 euro quando si superano i 25mila lordi e di circa 1.100 superando i 35mila lordi. Un fenomeno che “diventerebbe estremamente rilevante se la decontribuzione dovesse diventare permanente”. Come vorrebbe il governo, tanto che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha già annunciato che il taglio del cuneo fiscale è intoccabile e sarà un must della prossima manovra.
Non solo il cuneo fiscale, rilievi anche sull’Irpef
Rilievi vengono mossi dall’Upb anche sul capitolo Irpef, in merito a quanto successo nell’ultimo decennio. Si è ridotto il carico fiscale, sottolinea il report, ma “spesso a scapito dell’equità del prelievo e della sua capacità redistributiva”. A pesare è l’effetto negativo del drenaggio fiscale, cioè l’incremento del prelievo per l’inflazione, che in dieci anni ha annullato l’effetto positivo. Per il complesso dei lavoratori dipendenti le modifiche normative sono valse circa 3 punti, ma il drenaggio fiscale è stato di 3,6 punti percentuali, per un risultato negativo sul reddito disponibile di circa 0,6 punti. L’effetto è stato minore per pensionati e autonomi. Inoltre si registra una “progressiva erosione della base imponibile dell’imposta, che ha ridotto l’equità del prelievo e la sua capacità redistributiva”. Alla progressività dell’Irpef è stata sottratta anche una “quota rilevante del reddito da lavoro autonomo”, per esempio con la flat tax, comportando una disparità tra lavoratori autonomi e dipendenti.
La zavorra del debito
Cavallari sottolinea anche la necessità per l’Italia di “ridurre il peso di un debito pubblico elevato che costituisce un fattore di vulnerabilità per l’economia del Paese”, oltre a “sottrarre risorse”. Le stime dell’Upb sulla crescita non sono lontane da quelle del governo, anche se più caute: il Pil dovrebbe salire dello 0,8% quest’anno (il Def parlava di un +1%) e dell’1,1% nel 2025, per poi rallentare allo 0,8% e allo 0,6% negli anni successivi. L’ancora di salvezza è sempre il Pnrr, che potrebbero comportare “un aumento del Pil per quasi tre punti percentuali cumulativamente nel 2026”. Dal punto di vista della finanza pubblica restano invece “diversi elementi d’incertezza”, legati ai crediti d’imposta come per il Superbonus e Transizione 4.0. Proprio sui bonus edilizi “non si possono escludere effetti inattesi” nonostante la cancellazione del Superbonus.
Un ultimo capitolo è quello delle pensioni: le uscite anticipate non potranno autofinanziarsi senza pesare sui saldi di bilancio e, quindi, un’eventuale revisione dei requisiti che garantisca più flessibilità in uscita (come vorrebbe la Lega) sarebbe possibile solo con importanti “correttivi” agli assegni. Come già fatto quest’anno con il ricalcolo contributivo della Quota 103 con penalizzazioni. Altro che Quota 41, quindi.