Quando era in vigore il Reddito di cittadinanza, una certa stampa si divertiva a fare un giochino che ha tirato acqua – e tanta – al mulino della destra: prendere un lavoratore a basso salario chiedendogli che cosa ne pensasse di un sussidio da 500/600 euro al mese in media che, secondo qualcuno, faceva concorrenza agli stipendi (sic!). Vi lascio immaginare le risposte… Ora che il Reddito è stato cancellato nessuno va più in giro a fare certe domande, forse per ritrovata etica professionale o, più probabilmente, perché l’obiettivo prefissato è stato raggiunto.
Ma l’eliminazione del RdC non ha risolto l’enorme problema che attanaglia il nostro mercato del lavoro, quello dei salari stagnanti. Ne abbiamo scritto più volte su questo giornale. Per anni è stato fatto passare il messaggio che 1.100/1.200 euro al mese fossero roba da nababbi, che solo un folle avrebbe rifiutato. Dall’ultimo Rapporto AlmaLaurea, invece, scopriamo che alla domanda “saresti disposto ad accettare uno stipendio di 1.250 euro netti al mese?” il 60% dei laureati “brevi” e il 66% di quelli magistrali ha risposto “no”. Diciamocelo francamente: è una buona notizia. Significa che, malgrado la stucchevole retorica di certi governanti, i nostri giovani non sono più disposti ad accettare di tutto e di più, com’è avvenuto per tanto (troppo) tempo.
Lo stesso Rapporto rileva che quasi il 70% dei laureati italiani che sono andati a lavorare all’estero non intende fare ritorno in patria. Senza cercare troppo lontano, i motivi sono due. Primo, stipendi più alti: a un anno dalla laurea, i magistrali guadagnano il 56,1% in più che in Italia (2.174 euro netti al mese contro 1.393 euro); secondo, contratti stabili: a dodici mesi dal conseguimento del titolo, fuori dai confini nazionali il 41,3% dei giovani ha un contratto a tempo indeterminato rispetto al 25,5% di chi lavora in Italia. Il tema non è tanto – e solo – quello della sottoretribuzione, che rischia di creare un esercito di futuri pensionati poveri.
La domanda è come si possa pensare che i giovani, spronati a fare figli al motto “Dio, patria, famiglia”, vivano con poche centinaia di euro al mese. Oggi il peso medio dei canoni d’affitto sui redditi da lavoro dipendente nei capoluoghi di provincia è del 35,2%, superando il 40% in sei città. Vuol dire 500 euro del suddetto stipendio da 1.250 euro. Restano 750 euro per fare la spesa, pagare le bollette, mettere qualcosa da parte per affrontare le spese impreviste e, se lo si ha, mantenere un figlio. Introdurre il salario minimo legale è necessario, ma non basta. Serve un vero cambio di paradigma, perché un Paese che non investe sui giovani è un Paese senza futuro.