Un altro pezzo del cosiddetto decreto Cutro si sgretola al tribunale di Lecce con una sentenza che per l’ennesima volta ricorda al ministro e al governo che gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano non possono essere scavalcati dalla propaganda. La sentenza risulta particolarmente importante anche perché riguarda un cittadino tunisino, lì dove Giorgia Meloni ha stretto la mano del presidente autocrate Kaïs Saïed per bloccare i flussi migratori e dove nelle ultime settimane il governo ha aperto una vera e propria caccia all’uomo dal vago sapore di pulizia etnica, tanto da spingere Amnesty International a chiedere la remissione degli accordi Ue con il Paese.
Il 19 maggio del 2023 la Commissione territoriale di Bari aveva rigettato “per manifesta infondatezza” la richiesta di protezione speciale di un uomo sbarcato in Italia il 2 novembre del 2022. Il tunisino, come scrive il tribunale di Lecce nella sentenza che ha accolto il suo ricorso, “ha iniziato un discreto percorso di integrazione depositando diversi attestati formativi professionalizzanti” ed è “assunto con contratto a tempo indeterminato a far data dal 12/12/2023 con la qualifica di addetto alla preparazione di cibi nel settore della ristorazione senza somministrazione”.
Secondo i giudici è giusto ritenere quindi “che egli stia compiendo un apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà locale e che, verosimilmente, il suo percorso di integrazione potrà trovare ulteriore sviluppo, considerata la generale e crescente difficoltà di reperire un’attività lavorativa, a causa della notoria situazione di crisi socio – economica odierna che coinvolge l’intero Paese”. Per questo secondo i giudici rimandarlo in Tunisia si vanificherebbero “gli sforzi volti all’integrazione e alla costruzione di una certa prospettiva di vita sul territorio italiano”.
Il Tribunale di Lecce in un’articolata decisione riconosce in favore di un cittadino tunisino la protezione richiamando l’articolo 2 della Costituzione italiana e gli obblighi internazionali
Si tratta dei cosiddetti “migranti economici” che da anni sono nell’occhio del ciclone della propaganda di certa destra, additati come usurpatori. Il giudice riconosce “in comparazione alla situazione personale che egli viveva prima della partenza si rileva quindi quella “effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono il presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art.2 Cost.)”, oltre al “buon comportamento tenuto sul territorio nazionale in base alle risultanze in atti (non risultano precedenti penali né di polizia a suo carico), si ritengono sussistenti allo stato gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno del richiedente nel Paese di origine”. Oltre all’articolo 2 della Costituzione la sentenza si rifa alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo secondo cui “devono essere comunque valutati indici quali la natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, il suo effettivo inserimento sociale in Italia, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine”.
La Tunisia alleata del governo italiano quindi non è un “porto sicuro” a causa delle crescenti repressioni messe in atto da Saïed. Costruirsi una prospettiva professionale è un diritto, al di là dei convincimenti dei governi. E, come ricorda la sentenza, nonostante nel cosiddetto decreto Cutro l’articolo 19 non specifichi più “l’autonoma e diretta rilevanza che assume la tutela della vita privata e familiare in attuazione dell’art. 8 CEDU e le modalità di valutazione della ricorrenza di questo parametro […]” gli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano rimangono al di là della propaganda del governo di turno.