Dopo settimane di indiscrezioni, minacce e promesse, i carri armati di Israele sono entrati in azione a Rafah. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha resistito a tutte le pressioni provenienti dagli Stati Uniti di Joe Biden e dall’Unione Europea, dando il via libera al blitz con cui è stato preso il controllo del valico di frontiera che collega l’Egitto alla Striscia di Gaza.
Si tratta di un primo passo in vista di operazioni che, salvo colpi di scena, cresceranno di intensità nei prossimi giorni, culminando nell’annunciata invasione della città nel sud della Palestina.
L’operazione
Secondo quanto riportato dalla Cnn, citando fonti del governo americano, l’operazione appena iniziata non è quella in grande stile che tutti si aspettavano, ma un’azione “molto circoscritta” che sembra avere lo scopo di mantenere alta la pressione su Hamas per accettare un accordo più favorevole a Tel Aviv. È difficile dire se le cose stiano davvero così, perché diversi elementi sembrano indicare il contrario. In primo luogo, il fatto che i carri armati dello Stato ebraico non si sono limitati a stazionare al valico, ma si sono spinti fino “all’ex aeroporto internazionale di Gaza, a est della città di Rafah”.
In secondo luogo, c’è da dubitare dell’intenzione di Tel Aviv di raggiungere un accordo, poiché quest’ultimo era stato effettivamente raggiunto nella notte tra lunedì e martedì quando i militanti di Hamas avevano accettato una proposta di tregua di sei settimane, con contestuale rilascio di una trentina di ostaggi israeliani, che alla fine è saltata per l’opposizione di Tel Aviv. Paradossalmente, proprio l’accettazione dell’accordo da parte dei miliziani, vista dal governo Netanyahu come un segno di debolezza, avrebbe convinto lo Stato ebraico a sferrare il primo attacco a Rafah.
Infatti, il leader di Tel Aviv ha chiarito che “l’ingresso a Rafah serve a due principali obiettivi di guerra: il ritorno dei nostri ostaggi e l’eliminazione di Hamas”, aggiungendo che “la proposta di Hamas mirava a sabotare l’operazione a Rafah ma non ha avuto successo”. Inutile dire che i negoziati di pace, dopo l’avvio dell’operazione militare, sono a dir poco in salita. Secondo i militanti, “l’assalto dell’esercito israeliano al valico di frontiera di Rafah con l’Egitto rappresenta una pericolosa escalation contro una struttura civile protetta dal diritto internazionale e conferma l’intenzione delle autorità di occupazione di interrompere gli sforzi di mediazione per raggiungere un cessate il fuoco e rilasciare i detenuti”.
Trattativa di pace in panne
Come denunciato dall’agenzia di stampa palestinese Wafa, la chiusura del valico di Rafah impedisce “il movimento delle persone, specialmente dei malati e dei feriti, e anche l’ingresso degli aiuti umanitari, o il trasferimento degli aiuti alla popolazione della Striscia di Gaza nelle regioni meridionali e settentrionali, facendo presagire una carestia”. Proprio per questo, dall’occidente al mondo arabo si susseguono freneticamente gli appelli a Netanyahu affinché riapra la frontiera al fine di far passare gli aiuti umanitari così da evitare un disastro.
“Un accordo tra Israele e Hamas è essenziale ma le cose si stanno muovendo nella direzione sbagliata. Sono turbato e angosciato dall’attività militare israeliana a Rafah. La chiusura dei valichi di Rafah e Karem Shalom è particolarmente dannosa per una situazione umanitaria già disastrosa, devono essere riaperti immediatamente”, ha tuonato il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres.
Dello stesso avviso è il commissario Ue alle Emergenze, Janez Lenarcic, secondo cui “l’offensiva di terra su Rafah è totalmente inaccettabile. Aggiungerebbe una catastrofe alla catastrofe. Chiedo inoltre a Israele di aprire immediatamente i due principali punti di passaggio verso Gaza”. Peccato che per il momento Tel Aviv non sembra affatto intenzionata a fermare le ostilità, come si evince dal fatto che la delegazione al Cairo per negoziare un accordo con Hamas, per precisa decisione di Netanyahu, potrà dialogare con i mediatori ma non potrà in alcun modo trattare o concludere l’accordo.
L’Appello del Movimento 5 Stelle
Davanti a questa possibile catastrofe umanitaria, la deputata M5S, Stefania Ascari, fa notare come “dall’America all’Italia, alla Francia, alla Gran Bretagna fino al Libano e all’Australia, gli studenti e le studentesse si riuniscono davanti ai luoghi del sapere per chiedere ai potenti del mondo di fermare la guerra. Studenti e studentesse a cui diciamo sempre che dalle scuole e dalle università devono apprendere lo spirito critico e il senso di giustizia ma che poi vengono zittiti con la forza e con i manganelli quando fanno sentire la propria voce”.
Secondo la pentastellata, “le loro proteste stanno risvegliando l’opinione pubblica dal torpore dell’indifferenza e dell’ignavia, ci urlano che ciò che sta accadendo in Palestina riguarda tutti noi da vicino e non possiamo dirci democrazie mature se reprimiamo il dissenso e permettiamo, senza muovere un dito, a un folle di annientare un’intera popolazione”.
“Dobbiamo ringraziare questi studenti e queste studentesse se a Israele sta arrivando un segnale di indignazione dall’Occidente e a loro dobbiamo unirci per far sì che questa voce diventi sempre più forte e decisiva. L’Occidente deve intervenire e fermare Netanyahu interrompendo immediatamente l’invio di armi e imponendo il rispetto del diritto internazionale. Abbiamo il dovere di fermare questi crimini e questo criminale”, ha concluso la Ascari.