Ferita per la democrazia o presa in giro agli elettori, il senso non cambia. La candidatura dei leader di partito alle elezioni europee è nient’altro che uno specchietto per le allodole. Un tentativo di attrarre voti per posizioni che non andranno a ricoprire. Una cattiva abitudine di candidati di scena che sembra sempre più diffusa e che stavolta coinvolge anche il Pd.
Il primo a ufficializzare la sua candidatura tra i leader è stato Antonio Tajani per Forza Italia. Subito dopo è stato il turno della segretaria del Pd, Elly Schlein, capolista al Centro e nelle Isole. L’ultima a sciogliere la riserva sarà la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, pronta a scendere in campo come capolista di Fratelli d’Italia in tutte le circoscrizioni.
Chi si tira fuori dall’assurdo balletto
Chi non sarà candidato, senza dubbio, è il leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte. Tra coloro i quali con più veemenza hanno attaccato chi si candida per finta, parlando di “presa in giro ai cittadini”. Non si candiderà neanche Matteo Salvini, ma nel suo caso non sembra tanto una scelta di rispetto verso gli elettori, quanto più che altro il timore di fronteggiare in prima persona la sfida con Meloni. Anche perché soltanto cinque anni fa, proprio alle elezioni europee, Salvini fu candidato come capolista in tutte le circoscrizioni.
Per il momento non scendono in campo Matteo Renzi (non è tra i candidati capolista per gli Stati Uniti d’Europa) e Carlo Calenda. Mentre ci sarà Emma Bonino, che però probabilmente andrà a Bruxelles se eletta. Tajani e Schlein, intanto, sono pronti alla sfida e attendono la decisione di Meloni, che verrà annunciata il 28 aprile. Sembra probabile la sua candidatura come capolista ovunque, con l’obiettivo di superare il 26% delle politiche fissato come obiettivo minimo dalla stessa presidente del Consiglio.
Quanto pesano i leader candidati
Lo strappo di Schlein, la cui candidatura non è andata giù a più di qualcuno nel partito, rischia di non pagare. Come spiega Roberto Baldassari, sondaggista e direttore di Lab2101, non sempre la candidatura dei leader “porta un valore aggiunto e un incremento di voti”. Problema che riguarda proprio Elly Schlein, la cui discesa in campo “sostanzialmente non sposta, non cambia che ci sia o non ci sia” nelle liste. L’effetto positivo della sua candidatura, quindi, è a rischio.
Mentre molto diverso è il discorso per Giorgia Meloni, un caso “emblematico perché con la sua candidatura possiamo stimare un peso intorno all’1,5%”. Il dato più alto tra i leader insieme a quello di Cateno De Luca: anche la sua candidatura vale un 1,5% per la lista Libertà. Un effetto positivo sembra poter avere anche la discesa in campo di Antonio Tajani, che potrebbe portare un incremento dello 0,5% per Forza Italia, secondo il sondaggista.
Altri leader, invece, non saranno della sfida, ma il loro effetto sarebbe stato probabilmente nullo: parliamo di Matteo Salvini, per la Lega, di Carlo Calenda, per Azione, e dei leader di Alleanza Verdi-Sinistra. Mentre una discesa in campo di Matteo Renzi per la lista Stati Uniti d’Europa potrebbe valere fino a uno 0,5%.
Effetti completamente diversi, quindi, in base ai candidati e ai partiti. Come mai? Secondo Baldassari nei casi in cui “l’elettorato di un partito è più strutturato e ideologico, basato sulla cultura del partito, si sente meno l’effetto della leadership perché il voto ha radici più profonde”. Al contrario, “l’elettorato di Fratelli d’Italia e di Cateno De Luca è più legato al carisma del leader: Fdi ha un elettorato non ancora assestato, che si è avvicinato recentemente, ma prima non era legato al partito e quindi l’effetto Meloni si sente molto”. Al contrario di Schlein. La sua candidatura, alla fine, oltre a dividere il Pd rischia anche di non avere alcun effetto e di regalare una facile vittoria a Meloni nella prima sfida elettorale tra le due leader.