Se l’attacco “limitato” di Benjamin Netanyahu all’Iran doveva scongiurare l’escalation del conflitto mediorientale, allora non tutto sembra essere andato secondo i piani. Questo perché le milizie filo-iraniane in Iraq, come già ipotizzato da Elia Morelli a La Notizia, hanno lanciato cinque missili verso una base della coalizione internazionale anti-Isis, guidata dagli Stati Uniti, nella vicina Siria. Che l’attacco non sia un caso ma sia legato al raid israeliano con cui è stata duramente colpita una base militare nei pressi della città di Esfahan in Iran, lo lascia intuire il fatto che i combattenti sciiti con questo attacco hanno interrotto una ‘tregua’ che andava avanti da diverse settimane.
Insomma, la sensazione è che qualcosa si sia rotto e che, per quanto Teheran abbia chiarito di non voler entrare direttamente in guerra con Tel Aviv, le cosiddette truppe “dell’asse della resistenza sciita”, comandate più o meno direttamente dall’Iran, siano entrate in azione e continueranno a lanciare attacchi. Del resto, che questo sia l’andazzo, lo spiega il quotidiano israeliano Times of Israel a cui una fonte interna alla formazione sciita filo-iraniana Kataib Hezbollah ha dichiarato che “l’attacco alla base Usa è solo l’inizio”.
Rischio escalation dopo l’attacco “limitato” di Netanyahu all’Iran
Parole che non lasciano tranquilli e che smentiscono le tesi pubblicate dai media mainstream che per giorni hanno applaudito alla “risposta limitata” di Israele che, secondo loro, avrebbe favorito la de-escalation. Quel che è certo è che per il primo ministro di Israele Netanyahu le cose vanno sempre peggio. Infatti, il leader di Tel Aviv ha dovuto affrontare una giornata ad alta tensione iniziata con le dimissioni di Aharon Haliva, il generale al comando della direzione degli 007 israeliani il 7 ottobre, che ha lasciato l’incarico spiegando che “l’intelligence sotto il mio comando non è stata all’altezza del compito assegnato” e per questo “porto con me quel giorno nero” e “il dolore della conseguente guerra”.
Un passo indietro che ha infiammato la politica israeliana con il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, che ha esortato Netanyahu a dimettersi, seguendo l’esempio del capo dell’intelligence militare. Ma non è tutto. A pensarla come Lapid non è uno sparuto gruppo di israeliani ma addirittura il 62% degli abitanti dello Stato ebraico che, secondo un sondaggio condotto dall’Israel Democracy Institute, ritengono che sia giunto il momento per i responsabili dei fallimenti che hanno consentito gli attacchi del 7 ottobre di rassegnare le dimissioni.
Le altre rogne
Sempre Netanyahu, con i raid su Gaza che non si arrestano e l’operazione di terra a Rafah che sembra destinata a realizzarsi nei prossimi giorni, ha dovuto fare i conti anche con la scoperta di una gigantesca fossa comune, contenente 210 corpi, individuata all’interno dell’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud della Striscia. Si tratterebbe, secondo le ong internazionali, di uno scavo fatto durante l’assedio del nosocomio da parte delle forze israeliane in cui sono state gettate le persone rimaste uccise a causa dei blackout energetici oppure perché coinvolte nei combattimenti.
Tutte ragioni per le quali la comunità internazionale e soprattutto il mondo arabo stanno protestando con veemenza all’Onu. Sembra incredibile ma c’è dell’altro. Ieri è stato diffuso anche l’esito dell’indagine indipendente guidata dall’ex ministro degli Esteri francese Catherine Colonna, commissionata dalle Nazioni Unite, per fare luce sul presunto coinvolgimento dell’agenzia di soccorso delle Nazioni Unite, Unrwa, negli attentati terroristici del 7 ottobre. Ebbene secondo la commissione, Israele “deve ancora fornire prove a sostegno” delle sue affermazioni che sembrano essere smentite dai documenti fin qui acquisiti.