di Gaetano Pedullà
Chiamatela pure fatalità. Ma le 16 vittime di un disastro annunciato non sono uno scherzo del destino. Morire in un Paese urbanisticamente scassato è ovvio. Se le strade si trasformano improvvisamente in fiumi, annegarci dentro è normale. Così come trovarci impreparati di fronte a un ciclone se chi vigila usa ancora il fax, nell’era dei social network. Le immagini di una Sardegna colpita e affondata da un po’ di pioggia sono uno schiaffo all’incuria degli amministratori. Chi lascia un ponte pericolante al suo posto non può meravigliarsi se crolla. Allo stesso modo, se la politica ha sempre altro da fare piuttosto che occuparsi del territorio, non si meravigli quando il maltempo presenta il conto. Troppo facile decretare lo stato di emergenza, come è stato fatto ieri in Sardegna, promettere qualche milione di euro per i danni e guardare avanti. Tutta l’Italia è in stato di emergenza. E con i pochi spiccioli che il governo vuol spendere l’emergenza si trasformerà presto in nuovi morti, in famiglie sfollate e in giganteschi danni. Il clima si sa che si sta tropicalizzando. Le bombe d’acqua anche in Italia da anni non sono più una novità. I lutti, da Genova a Messina, da Roma a Catania, però non hanno insegnato niente. Ogni volta ci facciamo trovare sempre più indifesi. Sempre più vulnerabili. Ora è chiaro che se guardiamo al bilancio ordinario del Paese, di soldi ce ne sono pochi. Ma se proclamare lo stato di emergenza significa esattamente quello che vogliono dire queste parole, allora anche nel bilancio bisogna trovare risorse straordinarie. E anche di questo, così come per il dramma degli sbarchi a Lampedusa, l’Europa dovrebbe prendere atto, concedendoci di fare gli investimenti necessari attingendo fondi lasciati fuori dal perimetro del deficit pubblico. Diversamente sarà impossibile affrontare i pericoli di un clima che cambia. E sarà inutile piangere sui morti del giorno dopo.