“Chi mi ama, mi segua”, ha gridato. Poi si è incamminato, si è voltato e dietro di lui ha visto solo quattro gatti (forse un paio di meno…). È la – triste – parabola di Renato Soru, l’ex governatore della Sardegna; l’imprenditore di successo che aveva deciso di candidarsi, sottraendo (per fortuna pochi) voti alla candidata del centrosinistra Alessandra Todde, per “salvare” la Sardegna da Roma e dai giochi di potere… Quello che non ha voluto sentire ragioni e ha fatto campagna soprattutto contro Todde. Quello che non aveva alcuna chance di vincere. Quello che caratterialmente non accetta di aver sbagliato e non chiede scusa. Come abbiamo scritto in tempo non sospetti.
In Sardegna le urne intonano il canto del cigno per Renato Soru. E certificano l’irrilevanza politica di Italia viva e Azione
Così come in tempi non sospetti avevamo avvisato che in qualunque modo fosse finita la tornata elettorale, Lui-Soru avrebbe raccolto solo una sconfitta. Se avesse vinto Paolo Truzzu, Soru sarebbe stato ricordato come colui che ha regalato la Sardegna per i prossimi cinque anni a uno che si era fatto tatuare sul braccio la scritta Trux, in solidarietà al calciatore Di Canio, quando fu cacciato dalla Tv per un tatuaggio con la scritta Dux. Se invece oggi sarà consacrata Alessandra Todde, tutta la sua manfrina, il suo sforzo, il suo bellicismo, si sarà dimostrato inutile. Il canto di un cigno che si credeva leone.
Già ieri i numeri – pur nel marasma dei conteggi – ci hanno dato facile ragione. Se anche oggi quelle cifre saranno confermate, Soru non solo non ha vinto, ma avrà perso nella maniera peggiore. Infatti non entrerà neanche in Consiglio Regionale, in virtù della legge elettorale che prevede lo sbarramento al 10% per chi si presenta con più di una lista. Del resto, lui che già non aveva alcuna possibilità di arrivare a Villa Devoto da solo, si è scelto dei compagni di strada che ne avevano ancora meno… Quei centristi – Matteo Renzi e Carlo Calenda – che poi centristi non sono, visto che votano sempre col governo, che nell’Isola contano come il due di picche quando briscola è bastoni. Era il 10 febbraio scorso quando Calenda dichiarava “Renato Soru è il candidato migliore, è capace, è quello che conosce meglio la Sardegna, è l’unico che viene dalla Sardegna, gli altri sono stati decisi a Roma sulla base di incroci nazionali”.
E se lo diceva lui, che nella Capitale ci vive e ci lavora, bisognava crederci. A dargli manforte, quel giorno, anche il presidente nazionale di +Europa, Federico Pizzarotti. Qualche giorno dopo era arrivato l’acerrimo nemico di Calenda, Renzi, col suo abbraccio mortifero: “Riteniamo inaccettabili le offerte politiche della destra sovranista e della sinistra massimalista e populista”, aveva dichiarato la coordinatrice sarda del partito, Claudia Medda. Poi era stato il turno della coordinatrice nazionale Raffaella Paita, la quale aveva tenuto a specificare che Iv “parteciperà all’interno di un disegno civico territoriale al progetto di Soru”.
Alla fine Mr. Tiscali ha sottratto pochi voti alla candidata del centrosinistra Alessandra Todde
Ma allora perché tanto accanimento ad andare avanti? Ci si chiederà. Un po’ perché Soru è Soru. E non sbaglia mai. Un po’ perché quella parte del Pd sardo, quello del potere cinquantennale, quello che nelle istituzioni sarde c’è sempre stato, l’ha spinto a farlo. È quella frangia dem che ha remato contro la Todde, contro Conte e contro Elly Schlein. Insomma, contro il campo largo. Perché quel campo fa paura a chi ha gestito per anni soldi e potere, indipendentemente da chi fosse il presidente della Regione. Perché quel campo largo, se chiamato a governare, ha il dovere di rompere quegli equilibri che per troppi anni hanno soffocato la Sardegna.