La compagnia petrolifera italiana Eni è tra le sei aziende alle quali Israele ha concesso esplorazioni per il gas naturale in acque palestinesi, in territori che le convenzioni internazionali indicano sotto la sovranità di Gaza. Per questo lo scorso 6 febbraio lo studio legale Foley Hoag LLP, con sede a Boston, negli Stati Uniti, ha inviato un avviso ad Eni S.p.A. perché non intraprenda attività nelle aree marittime della Striscia di Gaza che appartengono alla Palestina. Come racconta Eliana Riva per Pagine Esteri insieme alle società inglese Dana Petroleum Limited (una filiale della South Korean National Petroleum Company), all’israeliana Ratio Petroleum e altri tre enti, l’Eni ha ottenuto la licenza di operare all’interno della zona G, un’area marittima adiacente alle rive di Gaza. Il 62% della zona G rientra nei confini marittimi dichiarati dallo Stato di Palestina nel 2019, in conformità con le disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Unclos), di cui la Palestina è firmataria.
Gaza, sovranità zero
Il governo di Netanyahu ha annunciato la concessione il 29 ottobre del 2023, nemmeno tre settimane dopo l’inizio del conflitto con Hamas e la successiva invasione di Gaza. Le associazioni umanitarie palestinesi Adalah, Al Mezan, Al-Haq e Pchr avevano fatto appello alle aziende coinvolte, Eni in causa, parlando di “un atto di saccheggio delle risorse naturali sovrane del popolo palestinese” dando mandato allo studio legale Foley Hoag LLP. Per i ricorrenti “l’emissione della gara d’appalto e la successiva concessione di licenze per l’esplorazione in questo settore costituiscono una violazione del diritto internazionale umanitario (IHL) e del diritto internazionale consuetudinario“, poiché Israele non ha nessun diritto sulle risorse naturali delle regioni occupate militarmente.
Le associazioni hanno sottolineato “le offerte, emesse in conformità con il diritto interno israeliano, equivalgono effettivamente all’annessione de facto e de jure delle aree marittime palestinesi rivendicate dalla Palestina, in quanto cercano di sostituire le norme applicabili del diritto internazionale applicando invece la legge interna israeliana all’area, nel contesto della gestione e dello sfruttamento delle risorse naturali. Ai sensi del diritto internazionale applicabile, a Israele è vietato sfruttare le risorse finite non rinnovabili del territorio occupato, a scopo di lucro commerciale e a beneficio della potenza occupante, secondo le regole di usufrutto, di cui all’articolo 55 del Regolamento dell’Aia. Invece, Israele come autorità amministrativa di fatto nel territorio occupato non può esaurire le risorse naturali per scopi commerciali che non sono a beneficio della popolazione occupata”.
Cosa loro
Israele dal canto suo ha risposto sventolando il principio secondo cui “solo gli Stati sovrani hanno il diritto alle zone marittime, compresi i mari territoriali e le zone economiche esclusive, nonché di dichiarare i confini marittimi”. Non riconoscendo lo Stato di Palestina quindi Netanyahu ritiene quelle risorse a sua completa a disposizione. Niente di nuovo rispetto alla storia recente. Adalah, Al Mezan, Al-Haq e Pchr infatti sottolineano come “la demarcazione unilaterale di Israele dei suoi confini marittimi per includere le aree marittime della Palestina e le lucrose risorse naturali non solo viola il diritto internazionale, ma perpetua anche un modello di lunga data di sfruttamento delle risorse naturali dei palestinesi per i propri guadagni finanziari e coloniali. Israele cerca di saccheggiare le risorse della Palestina, sfruttando quella che è già una semplice frazione delle risorse naturali legittime dei palestinesi”. Ai sensi del diritto internazionale per l’articolo 55 del Regolamento dell’Aia è vietato sfruttare le risorse finite non rinnovabili di un territorio occupato, a scopo di lucro commerciale e a beneficio della potenza occupante. Ma il diritto internazionale ad Israele non sembra interessare, non solo sulle questioni di gas.