Prima ha annunciato che la guerra non finirà neanche con l’eventuale liberazione degli ostaggi da parte dei terroristi di Hamas perché l’obiettivo è di cancellare per sempre l’organizzazione terroristica, poi ha alzato la posta in gioco ordinando l’evacuazione dei civili dalla città di Rafah in vista di un’operazione massiccia che da giorni gli Stati Uniti stanno provando ad evitare. “Non è possibile raggiungere gli obiettivi della guerra per l’eliminazione definitiva di Hamas e al tempo stesso lasciare quattro suoi battaglioni a Rafah”, ha spiegato il primo ministro Benjamin Netanyahu cercando di giustificare l’imminente attacco. Insomma sembra proprio che il leader di Tel Aviv, noncurante del processo all’Aja in cui gli viene contestato il genocidio dei palestinesi e delle prese di posizione sempre crescenti dei suoi alleati occidentali che sono stanchi del bagno di sangue nella Striscia di Gaza dove i morti sono ormai più di 28mila, non voglia fare davvero nulla per fermare le ostilità.
Senza via d’uscita e gli ammonimenti vani
Certo anche Hamas ha fatto ben poco per chiudere il conflitto visto che si è limitata, nei giorni scorsi, a presentare un possibile accordo per la liberazione degli ostaggi con condizioni talmente pesanti per Tel Aviv, tra cui la liberazione di 1500 detenuti palestinesi tra cui anche i combattenti che il 7 ottobre scorso hanno causato la morte di 1400 israeliani, che è sembrato più che altro una provocazione.
Il problema è che con la decisione di preparare l’assedio a Rafah, Netanyahu sta superando quella che tanti esperti giudicano “l’ultima linea rossa” nel conflitto. Questo perché Nazioni Unite, Unione europea e perfino gli Stati Uniti quando si vociferava di piani per attaccare la città, avevano detto molto chiaramente che un eventuale operazione di terra sarebbe stata “una catastrofe”. Il perché è facile intuirlo: Rafah si trova al confine con l’Egitto e al momento è l’unica città in cui i civili si possono ancora rifugiare. Dati alla mano, al momento nell’insediamento urbano trovano riparo 1,5 milioni di palestinesi scappati dal nord della Striscia e che, in caso di avanzata dell’esercito israeliano, si troverebbero nell’impossibilità più totale di mettersi al riparo.
Questo perché l’Egitto nega loro l’ingresso massiccio nel Paese e il nord della Palestina, visti i continui bombardamenti dell’aviazione di Tel Aviv, è letteralmente inaccessibile. Cosa ancor più grave è che l’ordine di evacuazione di Netanyahu arriva all’indomani delle parole del presidente degli Stati Uniti Joe Biden che spazientito, commentando gli oltre quattro mesi di guerra, per la prima volta dall’inizio del conflitto mediorientale ha ammesso che la risposta di Israele “è stata esagerata”, rivendicando anche di aver fatto pressioni sul governo dello Stato ebraico al fine di “consentire l’ingresso di aiuti umanitari” e di aver evitato un massacro proprio a Rafah.
Netanyahu e la tensione alle stelle
Che l’operazione a Rafah presenti insidie e aumenti a dismisura il rischio di un’escalation del conflitto lo ha fatto capire Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente dell’Egitto, infatti, ha ammonito Netanyahu che in caso di offensiva via terra nella città palestinese, incluso lo sfollamento di massa attraverso il confine già vagheggiato nei mesi scorsi da diversi esponenti del governo israeliano, finirebbe per mettere fine al trattato di pace con Israele che dura ormai da 40 anni. Parole dure che tanti leggono come un avvertimento a non procedere oltre perché, facendolo, l’entrata in guerra del Cairo contro Tel Aviv non sarebbe più un tabù. Si tratta di un’eventualità remota ma su cui da tempo scommette Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran, convinto di poter allargare il conflitto coinvolgendo l’intera area contro Israele.
Teheran che oltre a incentivare le milizie sciite dell’area a colpire città e interessi di Tel Aviv, sia attraverso gli Hezbollah in Libano che da mesi martellano il nord di Israele con continui lanci di missili e sia gli Houthi che dallo Yemen stanno prendendo di mira le navi in transito nel Mar Rosso causando la quasi totale paralisi del commercio marittimo nell’area, in queste ore starebbe accelerando anche sul suo programma nucleare. A sostenerlo è un rapporto, pubblicato pochi giorni fa, dell’Institute for Science and International Security, think tank fondato dall’ex ispettore dell’Aiea David Albright, secondo cui l’Iran sarebbe capace di costruire una bomba atomica nel giro di una settimana. Come si legge nel documento ““la situazione instabile nella regione sta fornendo a Teheran un’opportunità unica e una maggiore giustificazione interna per costruire armi nucleari, mentre le risorse di Stati Uniti e Israele per individuare queste attività ed impedire all’Iran di aver successo sono esigue”.
Il problema, si legge nel lungo e dettagliato report pubblicato anche da Repubblica, è che se Teheran dovesse riuscire a costruire la prima bomba, poi potrebbe realizzarne rapidamente altre “sei in un mese, e dopo cinque mesi di produzione ne avrebbe abbastanza per dodici testate”. Insomma la minaccia è reale anche perché si sta realizzando proprio nel momento in cui i rapporti tra occidente e Iran sono ai minimi termini. Cosa ancor più grave, il regime di Khamenei non avrebbe neanche difficoltà nell’usare tali ordigni avendo già prodotto, da decenni, missili a lunga gittata capaci di trasportare testate nucleari.