Secondo i primi dati diffusi dall’Inps relativi all’Adi (Assegno di inclusione), 651mila sono le domande presentate, 446mila quelle lavorate, 288mila accolte, 117.461 respinte. Antonio Russo, vicepresidente nazionale delle Acli, ci spiega cosa succede?
“Le condizioni nel passaggio dal Reddito di cittadinanza all’Adi sono cambiate e questo ha determinato la riduzione della platea. Il principio categoriale per il quale l’Adi la possono percepire i nuclei familiari che hanno minori, over 60 anni o disabili, ha ristretto la platea. Prima il Reddito di cittadinanza non era categoriale ma una misura universalistica. Ma chi è in condizioni di povertà deve essere sostenuto e accompagnato, a prescindere da quali siano le sue condizioni anagrafiche, sanitarie e lavorative. La platea si è ridotta per l’Adi e le domande respinte sono state 117.461 perché sono stati introdotti criteri più restrittivi. Dall’innalzamento della soglia Isee al fattore che un maggiorenne a carico della famiglia non dà più il coefficiente che ti consente di vederti riconosciuta la misura. Il reddito nel 50% dei casi è stato considerato troppo elevato rispetto ai limiti. Ma il risultato è che gli assegni erogati sono pochi e troppe le persone, che pur versando in condizioni di povertà, sono rimaste tagliate fuori. Ma mi faccia aggiungere una cosa”.
Prego.
“Tra le ragioni che ostacolano l’espansione del nuovo sussidio, oltre alle condizionalità economiche più restrittive, c’è anche una di tipo culturale. Che è ancora più pericolosa. Ovvero il principio per il quale la povertà è diventata uno stigma. A fronte di un numero crescente di cittadini e cittadine in povertà – nell’arco di dieci anni siamo arrivati al triplo del numero dei poveri da due milioni a poco meno di 6 milioni – si è imposta una narrazione per cui se sei povero è colpa tua. Grazie alla spinta delle forme di società civile organizzata, come l’Alleanza contro la povertà, si è riusciti a far introdurre nel nostro ordinamento una misura di reddito minimo di contrasto alla povertà assoluta. Questo è avvenuto a partire dal reddito di inclusione (Rei) – parliamo del governo Gentiloni – fino ad arrivare al Reddito di cittadinanza. Ma dal primo gennaio 2024 l’Italia è diventata l’unico Paese in Europa che non ha più una misura diretta di contrasto alla povertà. Che ora la povertà sia diventata uno stigma è un fenomeno che ci ricorda tanto i racconti dell’Europa del ‘400 o del ‘500. Che non derivi per esempio dal fatto che ci sono tre milioni di lavoratori poveri nel nostro Paese, che prendevano il Reddito di cittadinanza come integrazione salariale, ma dalla tentazione del divano è una sciocchezza colossale. E questo ha prodotto una controcultura pericolosa che finisce per convincere i percettori del sussidio di essere davvero degli sfaticati. Di fatto questa condizione psicologica fa sì o che uno si scoraggia e, pur avendo bisogno, non presenta la domanda del sussidio o se la presenta si arrende alla richiesta del primo requisito”.
Quanto pesa il no a un salario minimo legale?
“Tanto, troppo in un Paese in cui ci sono tre milioni di lavoratori poveri. Stabilire per legge un salario minimo avrebbe posto qualche condizione al mercato del lavoro”.
L’occupazione continua a crescere ma con salari da fame.
“Che l’occupazione cresca è un bene, per carità. Ma poi bisogna leggere i dati, capire la qualità del lavoro creato. Che tipo di contratti sono, per esempio. Se si tratta di un’ora alla settimana o di un giorno”.
Ritornando alle misure che hanno sostituito il Reddito di cittadinanza, i corsi di formazione, la cui frequenza è condizione per l’erogazione del Sostegno formazione e lavoro, sono al palo.
“A proposito di quest’altra misura – limitata al massimo a un anno – i dati dell’Inps (aggiornati sempre al 22 gennaio) parlano di 250mila domande attese, 170mila presentate, 70mila accolte. Poco più di un terzo delle richieste ha avuto cioè un esito positivo. Anche qui numeri poco confortanti. Ma io mi chiedo: in tutte le province italiane c’è un’iniziativa formativa capace di accompagnare queste persone al mercato del lavoro? Non mi pare. Abbiamo un sistema di infrastrutturazione, ovvero centri per l’impiego, agenzie del lavoro, capace di questo? No. E la riforma dell’Autonomia differenziata rischia di acuire queste difficoltà. La contabilità dei poveri assoluti cresce di anno in anno e se non si inverte la rotta con politiche strutturali di contrasto alla povertà, rischiamo una cronicizzazione del problema e che l’emergenza si trasformi in un fatto ordinario. Il nostro Paese, qualunque democrazia fondata sui principi di dignità delle persone, non lo può consentire”.