La cosa bella quando sono in scadenza le poltrone – che si tratti di quelle dei politici o di chi gestisce gli enti pubblici – è che si rifanno le strade, si spende per far vedere quanto si è bravi e di conseguenza si mette mano alle cose non fatte negli anni precedenti. Così ieri l’Agenzia Ansa riportava in evidenza l’ultima delibera della Cassa Depositi e Prestiti, con nuove operazioni per 2,3 miliardi a favore di imprese e infrastrutture. Somma a cui si aggiungono altri 700 milioni per la ricostruzione dei territori di Emilia-Romagna, Marche e Toscana colpiti dall’alluvione di maggio scorso, dunque solo otto mesi fa.
Da qui, pure l’osservatore più distratto capisce che tra poche settimane il governo dovrà designare il nuovo amministratore delegato dell’Istituto di via Goito, che ha in pancia una montagna di risparmi degli italiani, guidato da giugno del 2021 da Dario Scannapieco, indicato da Mario Draghi. In tutto questo periodo la Cassa è quasi sparita dai radar, se si escludono i generici comunicati stampa su mirabolanti attività finanziarie di cui però nessuno si è accorto, ad eccezione dei fondi di internazionali beneficiati negli investimenti. Tra questi vale la pena di ricordare l’incrocio nel 2022 tra la nomina del manager Massimo Di Carlo a capo del business della Cassa, proveniente dal fondo lussemburghese Muzinich, e il contemporaneo finanziamento di cento milioni di euro al fondo Muzinich diversified enterprises credit II, cioè un’altra tasca dello stesso pantalone.
Tra i vertici di questa società c’è l’economista Fabrizio Pagani, a lungo collaboratore dell’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Una storia raccontata solo da La Notizia, che provocò l’interesse della Commissione di vigilanza sulla Cdp e del Parlamento, dove in Fratelli d’Italia all’ora all’opposizione si parlò di “amichettismo” tra i soliti noti. Anche per questo, adesso che il governo deve indicare il nuovo Ad e il Cda della Cassa, a Palazzo Chigi hanno un problema nell’assecondare le preghiere di Scannapieco, che da mesi accende un cero a Draghi nella speranza di essere confermato. Dalla sua parte ci sarebbe pure gran parte del potente partito Mef, cioè i dirigenti che contano nel ministero guidato da Giancarlo Giorgetti.
Dunque, non ci sarebbe nulla di inconsueto se la Meloni facesse l’ennesima giravolta, confermando che la sua opposizione a Draghi fu solo di facciata, rinnovando l’incarico a Scannapieco. Esattamente quello che aspettano di vedere le opposizioni, per dimostrare l’ennesima incoerenza delle destre, soprattutto di fronte ai poteri forti delle banche e della finanza. Un assaggio, d’altra parte, l’abbiamo già avuto con la tassa sugli extraprofitti delle banche, annunciata e di fatto ritirata dalla premier nell’arco di pochi giorni non appena i grandi gruppi e Mediolanum (controllata dalla famiglia Berlusconi) hanno fatto sapere di non gradire.
Perciò circolano anche altri nomi di banchieri e professionisti in grado di guidare con più successo la Cdp. Tra questi spicca Gaetano Miccichè, per anni l’uomo macchina nelle operazioni finanziarie di sistema con cui Banca Intesa ha sostenuto il Paese. Miccichè potrebbe fare il presidente, su mandato delle Fondazioni bancarie, ma per la sua storia sarebbe di fatto il vero Ad. Oppure si è parlato di Alessandro Daffina, Ad di Rothschild Italia, che ieri ha smentito a Dagospia di aver partecipato a una cena con Salvini e di aver militato nel Fuan (l’associazione degli studenti universitari di destra) come riportato dal Foglio, ma non di essere interessato a un eventuale chiamata alla Cassa. Sempre in pista, ma a questo punto relegato nel ruolo “della sora Camilla” (tutti la vogliono e nessuno se la piglia) pure Antonino Turicchi, attuale presidente di Ita.
In questa partita entrano in gioco però altre variabili. La prima è quella di Giorgetti, che non vuol fare la figura del passacarte in una nomina che in fin dei conti attiene al suo ministero. Sarebbero in pressing, inoltre, i governatori della Lega, a cui non mancano loro uomini da sistemare nel Cda. La seconda variabile, poi, è quella delle altre nomine. Nella stessa tornata di Cdp sono in ballo i vertici di 63 società, tra cui spiccano le Ferrovie dello Stato, che stanno gestendo una delle fette più rilevanti dei fondi Pnrr, e la Rai. Alla guida delle FS c’è Luigi Ferraris, cioè quello che probabilmente è il manager italiano più esperto per privatizzare l’Alta velocità, assecondando uno degli impegni del governo.
Sostituirlo, inoltre, significherebbe rallentare la spesa dei fondi europei, con un danno che né Palazzo Chigi né il ministero delle infrastrutture possono permettersi. Più aperti i giochi a Viale Mazzini, dove l’Ad Roberto Sergio non ci pensa proprio a dare seguito alla staffetta col dg Giampaolo Rossi. Il Pd, inoltre, non sta spingendo a caso per un riequilibrio con le opposizioni, e per questo circola una doppia ipotesi, che vede Sergio ancora Ad e Mario Orfeo (in teoria Pd ma di fatto più Renzi che Schlein) presidente. Uno schema che ha per alternativa Gian Marco Chiocci presidente e Sergio Ad, sigillando così TeleMeloni.