Dopo una serie di di vicissitudini tecniche, l’inchiesta per tentata corruzione da parte dell’imprenditore della sanità e deputato della Lega Antonio Angelucci nei confronti dall’ex assessore alla Sanita del Lazio Alessio D’Amato è ripartita da zero. Un caso su cui aleggia il conflitto di interessi e che sembrava chiuso, con tanto di richiesta di rinvio a giudizio formulata dai magistrati di piazzale Clodio e bocciata dal gup per un difetto di notifica, che al contrario si è clamorosamente riaperto con il parlamentare che nei giorni scorsi, accompagnato dai suoi legali Franco Coppi e Pasquale Bartolo, è stato sentito per oltre un’ora dal pubblico ministero Gennaro Varone, titolare del fascicolo.
Antonio Angelucci era indagato per aver tentato di corrompere, nel 2017 con 250mila euro, l’allora assessore alla Sanità del Lazio D’Amato
Come racconta Repubblica, il leghista Angelucci avrebbe ribadito quanto detto già durante la prima indagine ossia che l’ex assessore alla Sanità del Lazio, colui che aveva dato il via all’indagine raccontando del presunto tentativo di corruzione, in realtà lo avrebbe calunniato. Come noto, il parlamentare era indagato per aver tentato di corrompere, nel 2017 con 250mila euro, l’allora assessore alla Sanità D’Amato. Un tentativo che non si era concretizzato in quanto il fedelissimo di Nicola Zingaretti, il quale non era e non è indagato, aveva rispedito al mittente la presunta proposta, preferendo denunciare tutto in Procura.
Proprio da qui era partita l’inchiesta a seguito della quale i magistrati ritenevano di aver trovato sufficienti prove del fatto che il re delle cliniche – proprietario del gruppo San Raffaele di Roma – avrebbe effettivamente promesso a D’Amato, all’epoca dei fatti responsabile della cabina di regia del servizio sanitario regionale, “il pagamento di complessivi 250mila euro, dei quali 50mila euro gli sarebbero stati, asseritamente, consegnati subito”.
L’ex assessore della giunta Zingaretti avrebbe dovuto avallare il pagamento dei crediti per la clinica San Raffaele Velletri
Questo, infatti, è quanto si leggeva negli atti. In cambio di ciò D’Amato avrebbe dovuto avallare il pagamento dei crediti per la clinica San Raffaele Velletri che erano stati revocati dalla Regione Lazio per effetto di un’altra inchiesta che aveva coinvolto il management della struttura e successivamente conclusasi con l’assoluzione degli indagati. L’episodio attorno al quale ruotava l’inchiesta riguardava il tavolo di riconciliazione indetto dal Prefetto di Roma e svolto il 19 dicembre 2017. Occasione in cui i presenti ragionavano sulla crisi occupazionale minacciata dal Gruppo San Raffaele a causa del braccio di ferro con La Pisana e per la quale Angelucci aveva tentato una mediazione, fino ad arrivare alla tentata corruzione.
Il caso Angelucci sembra essere la prova della degenerazione del conflitto di interessi che ormai imperversa in Italia
Tutti elementi che ora dovranno essere rivalutati con questa nuova indagine che è appena agli inizi. Quel che è certo è che il caso Angelucci, al di là di come andrà a finire, sembra essere la prova della degenerazione del conflitto di interessi che ormai imperversa in Italia. Questo perché ad essere indagato è un parlamentare della Lega che controlla uno sterminato numero di cliniche, tra cui quella finita al centro dell’indagine, e che ha a disposizione un arsenale di giornali con cui può fare il bello e cattivo tempo.
Un caso emblematico di un problema, quello del conflitto di interessi, di cui in Italia si parla troppo poco e su cui la politica ha fatto poco o nulla. Un fenomeno che in Italia ha avuto la sua massima espressione in Silvio Berlusconi che con la sua discesa in campo nel lontano ‘94 – e forte della proprietà di Mediaset – ha sdoganato il tema. Occasione, quella, che fece sollevare la sinistra che da quel momento ha iniziato a dire di voler porre un argine al conflitto di interessi salvo poi non muovere un dito quando è salita al potere.