Nella Capitale è praticamente un’istituzione: al marchio della Centrale del Latte di Roma sono tutti affezionati. Ma la sua lunga storia si intreccia con una vicenda recente che da qualche mese mette a rischio la società. Dopo l’addio di Parmalat, la produzione nello stabilimento capitolino si è nettamente ridotta e ora il nuovo management deve trovare il modo di rilanciare il marchio, continuando sempre a puntare sugli allevatori del territorio. Il modello, praticamente a chilometro zero, non cambierà, ma l’approccio al mercato sì: l’idea è quella di rilanciare il marchio storico puntando a nuovi settori oltre a quello del latte fresco.
La nuova governance punta anche a rafforzare il rapporto con le attività di vicinato come bar e pasticcerie. Ma non solo, perché vuole stringere accordi anche con le grandi catene dei supermercati e, soprattutto, diventare partner privilegiato per le forniture pubbliche. A queste idee si affianca l’intenzione di porsi come l’azienda che produce il latte dei romani, puntando anche su un aspetto emozionale e sulla tradizione, oltre che sulla possibilità di offrire, tra le tante cose, anche migliori condizioni di acquisto dei suoi prodotti per i dipendenti comunali.
La storia
Andiamo con ordine. La storica società capitolina ha vissuto di recente un divorzio da Parmalat. Dopo la sentenza della Corte d’appello, Parmalat (che fa parte del colosso francese Lactalis) ha riconsegnato la sua quota di maggioranza, pari al 75%. Così Roma Capitale è diventata socio di maggioranza con l’81,73% delle quote societarie. Al momento, dunque, il proprietario è il Campidoglio, ma prima di guardare davvero avanti e pensare al futuro dell’azienda è necessario aspettare il verdetto finale, sulla vicenda giudiziaria, della Cassazione. Fondamentale per stabilire il nuovo assetto e predisporre un piano industriale per il futuro.
La speranza è che la situazione si sblocchi presto con l’arrivo della sentenza, tanto più che parliamo di un’azienda “sana”, come garantisce anche il presidente della commissione capitolina Commercio, Andrea Alemanni. La società, con l’uscita di Parmalat, “si è trovata sguarnita di figure professionali e senza più un’importante fetta di mercato”. Difatti, l’uscita dell’azienda che fa parte del gruppo francese ha portato via una fetta di mercato importante per la Centrale del Latte di Roma, oltre che i suoi importanti canali distributivi. Da qui la necessità di cambiare modello di business e provare a rilanciare il marchio.
Il nuovo corso della Centrale del Latte
Il rilancio passa, secondo le intenzioni del nuovo management, anche per la diversificazione dei prodotti. Puntando, per esempio, sullo yogurt o sul latte microfiltrato. Per quanto riguarda lo yogurt, l’intenzione è di produrlo dentro lo stabilimento, contrariamente a quanto avviene ora. Un’operazione che si affianca, come detto, a una nuova politica in tema di distribuzione, provando a raggiungere settori – a partire dalle forniture pubbliche – finora trascurati se non del tutto abbandonati.
Il nuovo presidente, Fabio Massimo Pallottini, ha spiegato in commissione che il piano industriale ancora non c’è, anche in attesa del verdetto della Cassazione. Potrebbe arrivare, forse, in primavera. Intanto, però, garantisce che l’azienda che ha trovato ed ereditato è “sana dal punto di vista finanziario, un po’ seduta perché non era abituata a camminare con le proprie gambe”. Ciò che manca, per Pallottini, è un approccio più “autonomo” sul mercato, essendo molto dipendente dalla partnership con Parmalat ed essendo lo stabilimento rivolto alla produzione soltanto di latte fresco e freschissimo. E proprio qua nasce il problema dal punto di vista del mercato: il consumo del latto fresco è in costante ed inesorabile calo, a favore del latte microfiltrato. Prodotto su cui vuole puntare invece il nuovo management.
Sempre dal punto di vista del mercato c’è un altro elemento da sottolineare: parliamo di un prodotto che ha un costo più alto rispetto ad altri dello stesso segmento e per questo l’obiettivo è di puntare sulla fidelizzazione e sulla qualità. Resta il problema legato all’addio di Parmalat, che vuol dire 30 milioni di litri di latte in meno l’anno nello stabilimento: si è passati da 80 a 50-55. Nello stabilimento si produceva, per esempio, il latte ad alta digeribilità a marchio Parmalat, proprio per 30 milioni di litri. Il che rende chiaro che l’impianto, con 162 lavoratori, oggi è sovradimensionato e fa temere anche dal punto di vista occupazionale per il futuro. Per quanto riguarda la produzione, Pallottini assicura che almeno una decina di litri sono recuperabili nel breve termine. Ma prima di un vero piano di rilancio, in ogni caso, bisogna attendere la Cassazione. Fino ad allora si continuerà con il “traghettamento verso una successiva stabilità”. Sperando di poter salvare e rilanciare un marchio storico di Roma.