Ancora una volta un Paese europeo sale in cattedra e dà lezioni all’Italia. Il governo spagnolo ha annunciato ieri un ulteriore incremento del 5% del salario minimo. L’aumento, che fa parte di un accordo firmato con i sindacati, porta il salario minimo mensile spagnolo, pagato in tutto il Paese per 14 mesi, a 1.134 euro lordi. Il provvedimento è retroattivo dal primo gennaio e comporta un guadagno di 54 euro lordi al mese. Ne beneficeranno “quasi 2,5 milioni di lavoratori, soprattutto giovani e donne”, ha dichiarato il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez.
Nelle ultime settimane l’esecutivo si è scontrato con le resistenze della principale organizzazione dei datori di lavoro, la Ceoe, che voleva un aumento inferiore a quello proposto. In assenza di un accordo con i datori di lavoro, il governo ha deciso di negoziare solo con i due principali sindacati dei lavoratori, l’Ugt e la Commissione dei lavoratori. In un comunicato, l’Ugt ha salutato la mossa come “essenziale per migliorare il potere d’acquisto” delle famiglie. Secondo l’esecutivo, il salario minimo spagnolo è aumentato complessivamente del 54% da quando Sánchez è salito al potere nel 2018. All’epoca era di 735 euro al mese. L’obiettivo dichiarato del governo è quello di portare il salario minimo al 60% del salario medio spagnolo, che nel 2023 era di 2.128 euro lordi al mese, secondo l’Istituto nazionale di statistica.
In direzione contraria
Se in Spagna dunque l’esecutivo di Sánchez sfida le imprese, in Italia le destre continuano a mostrarsi compiacenti con i forti – da noi le aziende non vogliono un salario minimo legale – e forti con i deboli. Il governo Meloni – dopo aver affossato la proposta delle opposizioni a prima firma di Giuseppe Conte del Movimento Cinque Stelle di una soglia minima oraria retributiva di 9 euro l’ora – continua a vantarsi dell’occupazione, che se è vero che continua a crescere è anche grazie a contratti precari e salari da fame.
Nel 2021 – ultimi dati Istat comunicati qualche giorno fa – sono state 1,3 milioni le posizioni lavorative che percepivano una retribuzione lorda oraria inferiore addirittura a 7,79 euro, ovvero un valore inferiore ai due terzi della mediana. Si tratta del 6,6% del totale delle posizioni lavorative, la stessa percentuale rispetto al 2019. I salari reali in Italia sono praticamente fermi al palo da più di 30 anni. E il nostro Paese rappresenta un caso più unico che raro. L’ultimo rapporto Inapp evidenzia come, tra il 1991 e il 2022, i salari reali degli italiani siano cresciuti solamente dell’1%. Una vera e propria emergenza se consideriamo che la media nell’area Ocse è invece aumentata del 32,5%.
E l’Italia è uno dei cinque paesi europei sui 27 che ancora non ha un salario minimo. Le regole della contrattazione collettiva, ha spiegato il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda, “non sono state capaci di garantire tra il 1991 e il 2022 quella crescita dei salari reali che nella media dei Paesi dell’Ocse ha raggiunto il 32,5%, mentre in Italia si è fermata all’1%”. Tutto il contrario di quello che sostiene il governo Meloni, secondo cui bisogna puntare tutto sulla contrattazione collettiva. Ancora ieri, a fronte delle notizie che arrivavano da Madrid, la ministra del Lavoro, Marina Calderone, ha continuato a tenere in ostaggio oltre tre milioni di lavoratori e lavoratrici poveri. Il tema del salario minimo “come importo orario fissato per legge non lo possiamo accettare. Non è una soglia oraria – ha detto – che cambia gli equilibri e le situazioni di fragilità, bisogna creare una serie di supporti”. Sì, ma quali?