“Dobbiamo trasformare il dolore in impegno” l’esortazione che Monsignor Cipolla durante la celebrazione delle esequie di Giulia ha destinato a un Paese che nella vita spezzata della ragazza vuole vedere uno spartiacque che ci divida definitivamente dalla barbarie del femminicidio. Sarà davvero così questa volta o, ancora, ci troveremo a indossare un nastrino, a colorare qualche panchina, o a mettere delle scarpette che abbiano in comune il colore rosso?
Dopo Giulia le promesse non bastano più. È ora di passare dalle parole ai fatti
Il tutto per ricordarci il sangue sgorgato dalle ferite letali inferte da uomini che dichiaravano di amarle. L’impegno utile alla rivoluzione culturale di cui abbiamo bisogno non può ridursi all’uso di simboli, o all’esibita indignazione collettiva. Certo, anche questo è il volto della rabbia per l’ingiustizia subita non solo dai cari di Giulia che perdono con efferata violenza la persona amata, ma anche di una collettività che si sente sempre più vulnerabile e smarrita.
Quell’impegno a cui Cipolla si e ci richiamava davanti al bianco feretro della ragazza è la capacità di percepire l’azione del singolo – dunque quella di ciascuno di noi – come decisiva al cambiamento che solo se generato dal basso può essere decisivo. Smetterla di essere agiti da una cultura che vede nella gerarchia di potere la donna in quanto donna come parte debole, da vessare e umiliare, equivale a fare la propria parte in un sistema che non può andare avanti su ondate di rabbia collettiva incapaci di tradursi in azioni concrete. Dibattiamo quotidianamente di norme contro la violenza di genere, della loro corretta applicazione, della prevenzione culturale eppure si ha la sensazione – se non la certezza – che non cambi davvero mai nulla.
È evidente che lo Stato abbia delle responsabilità a riguardo ogni volta in cui lascia che un centro antiviolenza venga chiuso, in cui non investe nella formazione degli operatori del settore, in cui non foraggia e sostiene adeguatamente gli organi delle vittime di femminicidio. Solo per citare alcuni esempi. È però altrettanto vero che le nostre coscienze si risvegliano solo quando l’acre odore del sangue delle vittime si fa sentire, svanito quello ripiombano nel torpore della quotidianità in cui in fondo è “normale” vi siano certi comportamenti. Ci muoviamo con il pilota automatico dei nostri pregiudizi, di una cultura che non ha saputo evolversi verso una piena parità di genere nonostante piovano nuove e più aspre leggi, perché in fondo pensiamo che il cambiamento debba piombare dall’esterno quando il vero motore siamo noi.
Sì, proprio noi che oggi piangiamo Giulia dobbiamo chiederci cosa facciamo concretamente per estirpare la violenza di genere dalle nostre vite. Non occorre essere dei legislatori, dei poliziotti o dei magistrati. Anche noi, abbiamo un ruolo chiave in questo processo, quello di non voltarci dall’altra parte quando vediamo una situazione a rischio per una donna. Un’amica destinataria di una gelosia morbosa da parte di un partner perché uscita alla sera senza di lui, una moglie che viene vessata inspiegabilmente dal marito perché in fondo lei “è cosa sua”, quelle grida per strada di quella sconosciuta che viene strattonata dall’uomo che ha accanto.
Pensiamo che mostrarsi indifferenti, non essere direttamente coinvolti, sia la scelta più conveniente quando in realtà il danno più grande lo facciamo a noi stessi alimentando una società in cui ogni rete di protezione viene meno e in cui in fondo siamo tutti più vulnerabili. Come lo era Giulia dinanzi al ricatto emotivo di chi dicendo di amarla le ha tolto la vita.