Come sradicare la mascolinità tossica? E, oltre alla repressione, come fare prevenzione tra i giovani? Ne parliamo con Gaia Peruzzi, docente di Media, Genere e Diversità all’interno del corso di Laurea in giornalismo della Sapienza Università di Roma, mentre il femminicidio della 22enne Giulia Cecchettin infiamma il dibattito pubblico. E a pochi giorni dalla Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.
Si parla di questione culturale, il primo passo inizia dall’utilizzo corretto delle parole?
“Per le violenze di genere uso il plurale perché sottolineo, che vittime di sessismo sono anche le persone lgbtqia+. Le discriminazioni rappresentano un problema culturale ma, non dobbiamo utilizzarle come un’etichetta. Molti casi scaturiscono da un tessuto di abitudini che riproduciamo inconsapevolmente. I dati sono drammaticamente inflessibili, riguardano tutte le età e fasce della popolazione, ciò significa che non sono legati ad una variabile specifica come il ceto o l’istruzione ma, sono trasversali”.
Occorre secondo lei investire maggiormente su cultura e informazione per sconfiggere la piaga della violenza sulle donne?
“L’educazione è la strategia più importante che abbiamo. La formazione ci aiuta a sviluppare un pensiero critico e ci consente di capire come e su quali meccanismi bisogna intervenire. In questa battaglia tutte le istituzioni hanno un ruolo importante, soprattutto scuola e università”.
Quali sono gli errori che i media commettono quando trattano casi di femminicidio?
“C’è un problema legato al linguaggio. La modalità con cui nominiamo le cose rivela anche la percezione che abbiamo delle stesse. Oggi alcuni termini non sono ancora usati in maniera corretta: maschio-femmina ad esempio riguardano la sfera biologica, totalmente differente invece il discorso inerente l’identità di una persona e che implica quindi desideri e intenzioni. I giornalisti hanno responsabilità importanti e per questo dovrebbero essere preparati ma, essendo nati in questa società spesso, ne riproducono gli stereotipi. Siamo figli di una cultura dove è mancata l’educazione ai sentimenti. In passato il sesso era considerato come un tabù, per questo troppe persone hanno ancora difficoltà a gestire le proprie emozioni”.
I media sono preparati?
“Per cambiare la cultura sessista dobbiamo agire contemporaneamente su leggi e provvedimenti formali. L’atteggiamento più rischioso è quello di raccontare una storia di passione finita male, descrivendo colui che compie la violenza come una persona in preda ad un raptus. Inoltre, troppe volte vengono messe in luce caratteristiche femminili che deresponsabilizzano lui e colpevolizzano la vittima. Con Raffaele Lombardi, docente della Lumsa, abbiamo avviato ricerche sulle campagne istituzionali di diversi Paesi Europei e abbiamo rilevato che ci sono tanti stereotipi ricorrenti. Ad esempio, nelle pubblicità ci si rivolge sempre alle donne, attraverso una sollecitazione all’empowerment e mai agli uomini”.
Tra le varie polemiche di questi giorni sul caso di Giulia Cecchettin, una ha coinvolto la sorella Elena dopo un post del ministro Salvini. Come mai una prudenza istituzionale diventa tema di dibattito?
“Siamo in una fase di transizione, stanno cambiando le regole e il modo in cui le persone considerano i comportamenti. Prima il delitto passionale era giustificabile, oggi viene riconosciuto come violenza. Quando mutano le abitudini c’è sempre incertezza”.
Sul caso di Giulia ulteriori polemiche ci sono state dopo le parole della leghista Simonetta Matone a “Domenica In”. Gap di linguaggio o problema culturale?
“Le relazioni sentimentali sono state per anni oggetto della sfera domestica, se il marito picchiava la moglie era una “questione di famiglia” oggi, questi temi vengono trattati pubblicamente e per questo si infiammano i toni. Ci muoviamo, per fortuna, su un terreno in repentino cambiamento”.