Prima le proteste interne e le richieste di chiarimenti, adesso però la questione approda di fronte alla magistratura: il prossimo 14 novembre il Tribunale di Milano si pronuncerà sul destino di Italexit o meglio sulla gestione di Gianluigi Paragone che ha fatto infuriare un bel pezzo di militanti che lamentano la deriva personalistica del partito. Per non dire le “scomuniche”, i commissariamenti decisi dal leader accusato di voler cambiare in corsa i connotati alla creatura nata per favorire l’uscita dell’Italia dall’Unione europea e rispristinare la sovranità monetaria: a quanto raccontano i dissidenti Paragone ha dismesso la battaglia per l’uscita dall’euro perché non tira più. E rottamato pure il simbolo divenuto ormai ingombrante oltre che demodè per trasformarlo nei fatti in un’altra cosa ossia “Per l’Italia con Paragone”, che però non è il soggetto politico che ha ottenuto nel 2021, dopo il vaglio della democraticità dello statuto, l’iscrizione nel registro dei partiti e dunque l’accesso al due per mille.
Sfilza di siluramenti e addio al simbolo di Italexit. Il leader Gianluigi Paragone accusato di deriva personalistica
“L’eliminazione del nome del partito dal simbolo, inevitabilmente offusca la visibilità degli obiettivi perseguiti e, unitamente alla personalizzazione del partito, è idonea a svilirne l’iniziativa politica ed a provocare un calo di consensi ed interessi che, infatti, si sta già verificando” si legge nel ricorso cautelare che verrà discusso fra una decina di giorni di fronte ai giudici di Milano che poi saranno chiamati a decidere nel merito il mese successivo. Ma di cosa è accusato Paragone? Sostanzialmente di aver trasformato la fu Italexit a sua immagine e somiglianza, inzeppando la direzione nazionale di fedelissimi. E sostituendo progressivamente i delegati non graditi, “pur se legittimamente eletti dalle assemblee regionali e nominati dall’Assemblea Nazionale”, nel loro ruolo.
Sempre spulciando il ricorso finito sul tavolo della magistratura milanese si apprende così che sono finiti commissariati i coordinatori delle regioni Emilia Romagna, Piemonte, Sardegna, Toscana, Abruzzo, Veneto, Puglia e Campania, come pure quello di Roma: silurati così, senza grandi formalità. I “dissidenti” contestano la violazione delle regole statutarie e persino la legittimità della composizione della direzione nazionale, “organo nel quale sono stati nominati membri privi di titolo che ancora oggi partecipano alle decisioni fondamentali del partito come quelle impugnate con il presente atto”. In particolare le delibere ritenute maggiormente impattanti sull’andamento del partito che avrebbero comportato una vera e propria compromissione della democrazia interna. E tra tutte quella in cui sono stati riconosciuti al Segretario nazionale Paragone “ampi poteri”.
Di far cosa? In materia di comunicazione, azione politica e promozionale del partito ivi compresa la possibilità di studiare, ricercare e adottare, per eventuali campagne di promozione politica (..) un simbolo elettorale anche diverso da quello registrato ma comunque ad esso riconducibile”. Ben oltre insomma le prerogative attribuite dallo statuto e in “palese violazione dei principi di democraticità, equilibrio dei poteri e partecipazione previsti per legge”. Ma non è tutto. C’è di mezzo pure la mancata approvazione del bilancio 2022 e quello preventivo 2023 e qui la questione si fa delicata: al Tesoriere nazionale Roberto Levi il giorno della presentazione dei conti certificati invece di discutere di poste di bilancio, sarebbe stata contestata scarsa collaborazione “a motivo del fatto che non avrebbe provveduto a dotare di bancomat Gianluigi Paragone” più una serie di altre cose. Risultato: ciaone pure a lui.