Se c’è una cosa che ci ha insegnato la morte di Stefano Cucchi, barbaramente ucciso di botte il 22 ottobre del 2009 mentre si trovava in custodia cautelare, è che le morti in carcere a volte non sono come sembrano. Stefano Dal Corso aveva 42 anni quando è stato ritrovato morto nella sua cella del carcere Massama di Oristano, in Sardegna.
Primo responso: suicidio, impiccato a una finestra. In fretta arriva l’archiviazione senza nemmeno l’autopsia. Non ne sono convinte la sorella Marisa e l’avvocata Armida Decina che invece sottolineano ostinatamente di pestaggi, punti di sutura, lividi e strangolamenti. In particolare una telefonata ricevuta da Marisa Dal Corso da parte di una persona “ben informata” sui fatti accaduti all’interno del carcere: “Tu devi andare avanti. Devi fargli fare l’autopsia, assolutamente. Gliela devi far fare!”.
A Stefano mancavano poche settimane per la scarcerazione. Sarebbe tornato dalla compagna e dalla figlia. Che senso avrebbe avuto uccidersi proprio quando iniziava la discesa? L’avvocato Decina parla di testimonianze contrastanti, acquisite in ritardo o mai raccolte, così come di guasti alle telecamere di sicurezza del reparto di infermeria del penitenziario. C’è poi il cappio del suicidio, ricavato dal lenzuolo di un letto che tuttavia era perfettamente rifatto, con un taglierino che l’avvocata Decina non ha mai potuto vedere, oltre al problema principale della prima indagine, ovvero l’autopsia mai effettuata. “Le urla di dolore di Stefano si sentivano per tutta la sezione dove era recluso. Mio fratello, la sera prima del 12 ottobre del 2022, quando venne trovato morto in cella, subì un pestaggio da parte delle guardie”, dice la sorella. Abbiamo imparato la lezione di Cucchi?