L’agguato di ieri a Bruxelles, dopo l’assassinio del professore ad Arras, in Francia, e il martirio di un bambino in Illinois – per limitarci agli episodi degli ultimi giorni – allunga la catena del fanatismo islamico, ma anche anti-mussulmano, in Occidente. Senza rendercene conto, pure noi stiamo diventando cittadini di Gaza, come dei kibbutz violentati dal terrorismo di Hamas.
È il modello dell’orrore esportato sin dai dirottamenti aerei degli anni ’70, dalla strage di Settembre nero all’Olimpiade di Monaco sino agli attentati di Al Qaeda e dell’Isis. Per questo trovare una via d’uscita non è più un problema locale, confinato in Medioriente, ma globale. E siccome chi è passato una sola volta dai territori palestinesi sa perfettamente quanta povertà ci sia, e dunque i missili e l’aggressione di Israele sono stati finanziati certamente altrove, non ha più senso attendere altri eventi tragici prima di riaprire sul serio il tavolo della diplomazia. Tavolo di cui non c’è traccia dall’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, se si fa eccezione per lo sforzo del solo Vaticano.
Ieri notte (ora italiana) l’Onu si è spaccata su due documenti talmente generici da non servire a nulla, e nulla è più emblematico del disimpegno su un qualunque progetto di pace rispetto all’ipotesi in crescita di un ritiro della missione dei caschi blu nel sud del Libano. Di fronte al disastro, insomma, sappiamo solo dare armi, fuggire e sperare nello stellone, perché si scannino da altre parti e mai in Italia. Ma un’escalation come quella in atto non si fermerà in Palestina, e se la vendetta di Tel Aviv sarà cieca e brutale l’effetto si allargherà a macchia d’olio, senza risparmiare nessuno.
Per questo non c’è alternativa a cambiare rotta, chiedendo ai governi di intraprendere un percorso di Pace, e non per darla vinta ai tagliagole, o per negare minimamente il diritto di Israele di esistere, o nel caso di Kiev di difendersi, ma perché si possa coesistere tutti, fermando una spirale di violenza in cui anche noi rischiamo seriamente di precipitare. Un finale tragico da cui non si scappa restando alla finestra a guardare.