“Rendere i contratti più flessibili non aiuta l’occupazione. Il motivo, in sostanza, è che se è vero che i contratti flessibili inducono le imprese ad assumere un po’ di più nelle fasi di boom economico, è altrettanto vero che le spingono poi a licenziare appena si avvertono i primi cenni di crisi”. Con queste parole l’economista Emiliano Brancaccio, autore di numerose ricerche, pubblicate su riviste accademiche internazionali, e professore di Politica economica presso l’Università degli studi del Sannio, smonta la narrazione secondo cui il Jobs act, a suo tempo, ha trascinato verso l’alto l’occupazione.
Professor Brancaccio, periodicamente il dibattito ritorna sul Jobs act. Ora si parla anche di un referendum per abrogarlo e la polemica tra favorevoli e contrari riparte. Secondo lei la legge è riuscita ad aumentare l’occupazione?
“La parte del Jobs Act che ha reso i licenziamenti più facili e meno costosi non ha avuto un impatto significativo sull’occupazione. Questo fallimento non deve meravigliare. Dopo decenni di studi sugli effetti della precarizzazione del lavoro, la ricerca scientifica è ormai giunta a un risultato netto: rendere i contratti più flessibili non aiuta l’occupazione. Il motivo, in sostanza, è che se è vero che i contratti flessibili inducono le imprese ad assumere un po’ di più nelle fasi di boom economico, è altrettanto vero che le spingono poi a licenziare appena si avvertono i primi cenni di crisi. Alla fine, tra posti di lavoro creati e distrutti, il saldo netto è zero. Questa conclusione è ormai condivisa persino da istituzioni come il FMI, l’OCSE e la Banca Mondiale, che avevano per lungo tempo propugnato la via della precarietà, ma che poi si sono ritrovate a pubblicare ricerche in cui ammettono che non ci sono evidenze sull’effetto occupazionale”.
Ma allora, se non hanno creato occupazione, a cosa sono servite le politiche di flessibilità del lavoro?
“A ridurre i salari e ad accrescere i profitti e le rendite. Richard Freeman, economista del National Bureau of Economic Research, la sintetizza così: l’abbattimento delle tutele del lavoro ha favorito non l’efficienza ma la disuguaglianza”.
A proposito di occupazione, in Italia nonostante la ripresa rimaniamo lontani dalla media Ue e restiamo maglia nera per l’occupazione femminile.
“I bassi tassi di occupazione, specialmente femminile, sono tipici segnali di arretratezza del capitalismo italiano. Anziché spingere verso la modernizzazione, le cure a base di precarietà e bassi salari hanno accentuato questo nostro ritardo storico”.
Tra l’altro la corsa dei prezzi ha tagliato ulteriormente il potere d’acquisto dei lavoratori. Come rimediare? Taglio del cuneo fiscale, adeguamento al contratto nazionale leader o salario minimo?
“Il cuneo fiscale è stato già ampiamente praticato, senza dare risultati significativi. Bisognerebbe insistere sull’estensione di validità dei contratti collettivi firmati da sindacati concretamente rappresentativi, accompagnata da un salario minimo sufficientemente elevato. Le due misure possono essere rese pienamente compatibili e integrarsi a vicenda”.
Per lungo tempo si è detto che l’Italia fosse l’unico grande paese europeo privo di un sostegno continuativo per tutte le persone in povertà. Il reddito di cittadinanza doveva rimediare a questa lacuna ma ora torniamo a non averlo. Perché in Italia c’è tutto questo astio contro i poveri?
“Uno dei motivi è che in Italia, più che altrove, il bilancio pubblico sta perdendo la funzione di finanziare lo stato sociale e sta diventando sempre più ‘cosa loro’, dei ricchi. Gli stessi strati di società opulenta che si indignavano per il reddito ai poveri, poi plaudono ai massicci oboli di Stato che ricevono ogni anno, talvolta pure in modo illecito. Basti notare le ingenti risorse pubbliche che vengono catturate da ampi strati di borghesia parassitaria e allergica alle regole: le frodi contro lo Stato da parte di faccendieri, tangentisti, imprese infiltrate in appalti manipolati, ammontano a circa 7 miliardi all’anno, ossia dieci volte peggio delle tanto vituperate truffe sul reddito di cittadinanza. Insomma, è una sorta di Robin Hood all’incontrario, che toglie ai poveri per dare ai ricchi”.