Sono passati quasi dieci anni eppure una parte del centrosinistra sembra ancora inchiodato lì: il Jobs Act varato dal governo Renzi tra il 2014 e il 2016 dovrebbe essere nelle intenzioni di molti il monumento dell’abilità politica del Pd renziano rispetto al Pd di oggi.
A dieci anni dal varo del Jobs Act il dibattito nel Partito democratico tra renziani e nuovo corso è surreale
Il fatto che nel frattempo siano passati cinque governi e ben tre legislature dalla sua approvazione indica la stagnazione e per questo forse conviene fare un po’ di chiarezza. Dicono i sostenitori renziani (quelli che ora stanno nel partito di Renzi, Italia Viva, e quelli rimasti all’interno del Partito democratico) che le riforme contenute nel pacchetto Jobs Act parlano di “un milione di posti di lavoro” da quando la riforma è entrata in vigore fino al Decreto dignità del primo governo Conte che l’ha sostituito.
Come scrive Mattia Marmasti che per Pagella Politica ha messo in fila i numeri secondo i dati Istat dall’insediamento del Governo Renzi (2014) fino alla fine del 2016 (quando Renzi rassegnò le dimissioni) il numero degli occupati è passato da 22 milioni a 22,9 milioni. Su questo si basano le dichiarazioni di chi – Renzi e Boschi in primis – elogia il provvedimento. Ma gli occupati sono posti di lavoro? Non proprio. Pagella politica sottolinea come l’Istat consideri come “occupato” chi ha tra i 15 e gli 89 anni e nella settimana in cui sono stati raccolti i dati ha dichiarato di aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita.
Rientrano quindi tra gli occupati anche i lavoratori in ferie, in maternità o paternità, e quelli temporaneamente assenti per un periodo inferiore ai tre mesi. Gli occupati sono quindi una categoria più ampia di quella dei posti di lavoro, un’espressione che indica invece lavori più stabili. Per comprendere quanto la riforma renziana abbia impattato sull’aumento di occupati, al di là del contesto economico nazionale e dalla generale ripresa dell’economia del 2011 torna utile lo studio pubblicato dagli economisti Pietro Garibaldi e Tito Boeri (già presidente dell’Inps all’epoca del governo Renzi) nel 2019.
Decine di studi rivelano che la misura del rottamatore ha prodotto effetti negativi sui redditi
Lo studio confronta gli effetti del Jobs Act sulla dinamica occupazionale tra le imprese con più di 15 dipendenti e quelle con meno di 15, con cambiamenti trascurabili. Si scopre quindi che il Jobs Act ha sì aumentato il numero di contratti a tempo determinato del 60 per cento, ma ha aumentato anche i licenziamenti rispetto alle aziende non trattate. Una ricerca compiuta dagli economisti Valeria Cirillo, Marta Fana e Dario Guarascio dimostra anche che l’aumento dell’occupazione è avvenuto nei settori meno specializzati.
Anche lo studio sulla Regione Veneto di Paolo Sestito ed Eliana Viviano, economisti della Banca d’Italia, mostra l’impatto significativo in termini occupazionali a fronte di una minor selezione dei lavoratori. Son diversi gli studi (tra cui quello di Michele Catalano ed Emilia Pezzola) che dimostrano come il Jobs Act abbia prodotto un aumento del Pil e un calo della disoccupazione provocando però un calo della “quota salari”, ossia della parte di reddito nazionale che va ai lavoratori.
È arcinoto l’aumento degli occupati. Ma non quello dei licenziati
Sull’obiettivo fallito della creazione di nuovi contratti a tempo indeterminato cita un’analisi del think tank economico Tortuga secondo cui la riduzione del costo del lavoro attraverso la decontribuzione, ossia un incentivo economico, avrebbe avuto i suoi effetti nella lotta alla precarietà. Ma non si potrebbe dire lo stesso dell’incentivo legislativo, ossia il contratto a tutele crescenti, che non avrebbe avuto un impatto significativo.
Il motivo, secondo vari economisti, è che il contratto a tutele crescenti non è stato correttamente incentivato, a differenza di quanto accaduto per vari tipi di contratto a tempo determinato. Quindi no, il Jobs Act non è stato salvifico e non è la pietra angolare delle riforme del lavoro negli ultimi anni. I renziani possono mettersi il cuore in pace e il centrosinistra potrebbe concentrarsi sulle riforme che servono. Sventolare un feticcio serve solo alla sopravvivenza politica del suo autore.