No, il calcio non è semplicemente uno sport. Non lo è da decenni e non lo è maggior ragione oggi, periodo nel quale tutto è governato da strategie politiche e interessi economici. Ecco perché gli spaventosi acquisti delle squadre saudite di calciatori top player in Europa non deve sorprendere. Né deve stupire il contratto monstre da 90 milioni di sterline in tre anni che sarebbe stato garantito al prossimo Ct dell’Arabia, Roberto Mancini.
“Il calcio è uno strumento di soft power che gli Stati utilizzano nella competizione internazionale, nell’alveo di vere e proprie guerre non convenzionali che si combattono per affermarsi, attraverso logiche non eminentemente militari”, spiega non a caso Alessio Postiglione, esperto di geopolitica e di politica internazionale, professore alla SIOI (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale) e da poco in libreria – non a caso – con “Calcio, politica e potere. Come e perché i Paesi e le potenze usano il calcio per i loro interessi geopolitici (Edizioni Mondo Nuovo).
Professore, partiamo dai numeri: le squadre arabe hanno speso quest’estate 435 milioni di sterline per i trasferimenti dei giocatori e stanno pagando a questi giocatori un totale di 678 milioni sterline in stipendi. Non è dunque solo calcio?
No. L’Arabia Saudita, Paese sunnita, utilizza il calcio come strumento di proiezione internazionale a livello globale, e a livello regionale, dove compete contro l’Iran sciita, e anche contro il Qatar, sunnita, ma legato alla Fratellanza musulmana, che ha fatto da apripista nel campo della geopolitica del calcio.
È una questione quindi di immagine, o c’è dell’altro, una vera e propria strategia politica?
Sicuramente l’immagine conta, quando si parla di soft power. Mohammed bin Salman deve lasciarsi alle spalle una immagine dell’Arabia compromessa dal caso Kashoggi, un’immagine così conservatrice che, fino a poco tempo fa, alle donne non era neanche concesso di guidare l’auto. Poi, c’è la geopolitica. L’Arabia Saudita è l’ultimo Paese della sfera islamica ad entrare in questo campo di gioco e lo fa con un salto di qualità.
Qual è la differenza fra la strategia dell’Arabia Saudita, quella del Qatar, e quella degli altri Paesi dell’area, come gli Emirati, proprietari come noto del Manchester City, freschi vincitori della Champions league?
Qatar ed Emirati hanno utilizzato il calcio per promuoversi, ma all’estero, investendo soprattutto in Francia, con il Paris Saint Germain qatariota, e in Inghilterra, con il City, gruppo di proprietà emiratina. Gli Emirati, con il controllo del Manchester City, in holding con i cinesi, sponsorizzati da Etihad dell’emiro Khalifa bin Zayed Al Nahayan, hanno scelto la strada della holding che mette insieme squadre di diversi sport, in svariate parti del mondo. Il Qatar ha poi fatto un specifico investimento sui Mondiali in patria, lanciando ulteriormente un guanto di sfida agli altri Paesi del Golfo. Con l’organizzazione dei Mondiali, che Doha ha affiancato al PSG, testa di ponte in Francia, dove il Qatar ha tanti interessi economici, questo Paese ha compiuto un salto di standing internazionale, suggellato politicamente con gli Accordi di Doha, con gli americani che affidano al Qatar la gestione dell’Afghanistan post-taliban. Ecco che l’Arabia Saudita non poteva restare indietro. Prima entra, due anni fa, nella Premier, con le proprietà di Newcastle Utd e Sheffield, poi, l’anno scorso, con Cristiano Ronaldo, e quest’anno, il vero salto quantico: non investire solamente nei campionati europei, ma rendere grande il proprio campionato.
Bisogna aspettarsi questa strategia a breve anche da altri Paesi?
Le grandi potenze hanno tutte una strategia calcistica. Ce l’hanno gli americani, che organizzeranno il prossimo mondiale, che io e i due coautori di “Calcio, politica e potere”, Valerio Mancini e Narcis Pallares, definiamo il “Mondiale Nafta”, l’area di libero scambio nord americana. Ce l’hanno i russi: lo Shakhtar era la squadra del Donbass filorusso, finanziata da Rinat Akhmetov, grande finanziatore dell’ex presidente Yukashenko e del suo partito, nonché proprietario della acciaieria di Azovstal. Ce l’hanno i cinesi. E l’ha vergata direttamente Xi Jinping. Mi domando: ce l’hanno gli europei? Non mi sembra. La Premier league è un’entità extra UE e la UEFA ha sede in Svizzera, non è una istituzione legata alla UE.
Lei al tema del legame tra calcio e geopolitica ha dedicato un libro. Bisogna sorprendersi per quanto sta accadendo?
No. Il calcio non è solo geopolitica, ma un agente di socializzazione e nazionalizzazione delle masse. Cioè uno strumento che crea le nazioni. E oggi un importantissimo attore economico. Il giro d’affari del calcio vale più di una legge di bilancio, è lo spettacolo più visto sulla Terra, la Fifa ha più membri delle Nazioni Unite.
Dunque c’è ancora una distinzione tra il calcio europeo e quello extraeuropeo?
Il punto che sollevavo è proprio questo. La Premier League è ancora il campionato più importante al mondo. Ma non è una leva dell’Unione europea. Non solo per la Brexit. Noi abbiamo inventato la geopolitica del calcio, ma non la stiamo più utilizzando.