di Vittorio Pezzuto
Fumata grigia. Ieri la giunta per il Regolamento del Senato, riunitasi per decidere con quali modalità dovrà tenersi il voto in aula sulla decadenza di Silvio Berlusconi, ha deciso di sospendere pochi minuti dopo i propri lavori. È stata infatti accolta una richiesta in tal senso avanzata dai membri del Pdl, alla luce di quanto sostenuto nelle motivazioni redatte dalla Corte di Appello di Milano sulla decisione di comminare due anni di interdizione dai pubblici uffici a carico dell’ex presidente del Consiglio. I giudici hanno infatti sostenuto che l’incandidabilità è una sanzione amministrativa, quindi non retroattiva. «E quindi dà ragione a noi e non c’è motivo di andare avanti» ha subito argomentato l’ex Guardasigilli Francesco Nitto Palma. Il senatore del Pdl ha così avuto buon gioco nel definire immotivata «la fretta» di molti di decidere sul voto palese o segreto.
Questione tanto dibattuta quanto singolare, tipica di un Parlamento che preferisce accantonare consuetudini decennali pur di piegare all’interesse di parte (per di più momentaneo) il proprio regolamento. Il quale prevede che sulle guarentigie parlamentari il voto nell’emiciclo di Palazzo Madama sia segreto qualora a richiederlo siano venti senatori. Ma se così è perché allora lorsignori si accapigliano da settimane sulla possibilità di passare al voto palese? Tutto per colpa di Silvio Berlusconi, ça va sans dire. Pentastellati e piddini denunciano le leggi ad personam con le quali il Pdl avrebbe inquinato i nostri quattro codici e, fiutando ingolositi l’odore del sangue del Cav, ci spiegano serafici come la legge sia uguale per tutti e vada in ogni caso rispettata. Non fidandosi di loro stessi, non vogliono però correre rischi. Per questo, cianciando di democrazia, invocano il voto palese sulla decadenza del nemico-alleato. Pur di assicurarsi la certezza del suo cadavere politico, sono quindi determinati a varare il più classico dei provvedimenti contra personam. Non solo. Qualora fallisca il colpo di mano, i senatori grillini hanno già promesso l’autoscatto al momento del voto, per dimostrare su Facebook di aver obbedito alla linea imposta dal gruppo e da Grillo (che ancora ieri, in visita pastorale alla Camera, ha urlato che il voto segreto è «un abominio»). Per lo stesso motivo i loro colleghi piddini sarebbero invece pronti all’uso del solo dito medio (ideona partorita a suo tempo da Miguel Gotor, fallimentare spin doctor di Pier Luigi Bersani). Insomma, proprio coloro che amano denunciare la concezione “proprietaria” della politica che albergherebbe nel Pdl, non avrebbero alcuno scrupolo a violare le regole dell’aula pur di garantirsi l’immunità da critiche e scomuniche. Fingono di non ricordare che, a differenza di quelle sovietiche, la nostra Costituzione stabilisce il divieto di mandato imperativo per i parlamentari, al fine di preservarne la libertà di coscienza. E dimenticano che la legge prevede l’arresto in flagranza di reato per il cittadino che venga colto nell’atto di fotografarsi nel chiuso della cabina elettorale.
Con queste premesse, uno si sarebbe aspettato almeno un deciso intervento del presidente del Senato a tutela della regola esistente e per censurare le annunciate furbizie per aggirarla. E invece all’ammiccante Pietro Grasso non è parso vero fornire una costante copertura politica ai suoi compagni di partito e a quanti avversano il voto segreto. Tanto che ancora ieri Renato Schifani lo accusava di voler imporre un’accelerazione sui tempi del voto, magari con la convocazione in seduta notturna della stessa Giunta (che invece si riunisce oggi alle 9). Continuava così lo stucchevole teatrino delle parti: con Matteo Renzi che invocava il voto palese e con le pressioni alla montiana Linda Lanzillotta perché non sposti in Giunta l’ago della bilancia a favore del voto segreto. Storia triste.