A meno di un anno dal suo insediamento un governo non può certo fare miracoli, ma manifestare attraverso l’adozione di misure concrete quella che è la sua visione del Paese più o meno vicina ai proclami elettorali e ai punti programmatici stabiliti con gli alleati. L’innegabile consenso elettorale che ha visto il partito di Giorgia Meloni passare dall’isolamento dell’opposizione a essere il più votato alle passate elezioni politiche si è nutrito della rabbia e dello scontento di coloro che ritenevano possibile grazie alla “leader della Garbatella” una riduzione delle diseguaglianze sociali, cancro italiano. A partire dalla scuola, pilastro costituzionale di una socialità egualitaria, il governo Meloni ha ritenuto di alterarne la natura inclusiva cominciando dal nome e facendolo così diventare: Ministero dell’istruzione e del merito.
L’applicazione di una logica aziendalista alla scuola pubblica porta ad esasperare la competitività
L’applicazione di una logica aziendalista alla scuola pubblica, come hanno fatto caldamente notare i sindacati in accesa polemica con il governo stesso, mina la vocazione egualitaria della scuola che non coincide con un’azzeramento del merito, ma con la valorizzazione dei percorsi individuali all’interno di un contesto in cui le condizioni di partenza di ogni studente sono diverse le une dalle altre per dati economici, territoriali, culturali, vocazionali.
Non è l’esasperazione della competitività la chiave del raggiungimento del traguardo perché ingenera una frustrazione fondata sul concetto di colpa che non tiene conto delle diversità di chi sta affrontando lo stesso percorso. Il medesimo approccio è usato dal governo per affrontare le questioni connesse a un altro diritto costituzionalmente garantito, quello al lavoro. Se sei povero è colpa tua, non hai il merito di aver trovato lavoro. Perché il lavoro, che magari non sarà quello dei tuoi sogni, esiste e se non hai voglia di farlo è perché preferisci la tua comoda vita da “divanista”.
Il povero anziché essere aiutato a uscire dalla condizione di marginalità sociale in cui versa si trova a essere etichettato – quando ritenuto dagli algoritmi “occupabile” – come colpevole della propria condizione che in una cultura di matrice cattolica come la nostra è assimilabile a un peccato capitale: l’accidia. Nessuno qui auspica la esiziale cancellazione della responsabilità individuale, ma a gran voce si chiede la promozione di politiche che sostengano chi non parte da condizioni socialmente agevoli e fatica rispetto ad altri a ritagliarsi un proprio spazio di autonomia partendo dalla scuola e arrivando al lavoro.
Il merito può essere valorizzato e premiato solo quando si lavora a ridurre le diseguaglianze sociali di partenza. Un bambino che proviene dalla profonda periferia, da una famiglia che non ha strumenti culturali – forse nemmeno la volontà – per sostenerlo e incoraggiarlo, che non ha opportunità di attività extra-curriculari (il suo territorio è carente di spazi pubblici di aggregazione adatti alla sua età, come palestre pubbliche), che vede nella mensa scolastica il suo pasto principale (per molti bambini italiani è così) è probabile, non scontato, abbia serie difficoltà a stare al passo con i compagni di classe. Un brutto voto è ciò che si merita? O, forse, bisognerebbe aiutarlo per metterlo in condizione di “competere” con gli altri?
Stesso discorso vale per coloro che accedono al mondo del lavoro: farlo nel Mezzogiorno (ove il rdc è stato maggiormente richiesto e concesso) o farlo al Nord non è la stessa cosa. La rete infrastrutturale, gli ospedali pubblici, le scuole nel sud del Paese, nonostante vi siano eccellenze che faticosamente emergono, vivono lo scotto di problemi strutturali mai risolti e che si ripercuotono negativamente sulla possibilità di “riscatto sociale” della popolazione. L’autonomia differenziata, altrimenti chiamata “secessione dei ricchi”, inasprisce ulteriormente queste diseguaglianze creando cittadini di “serie A” e di “serie B”. L’amara verità è che dalla scuola al lavoro, passando per il disegno di legge Calderoli, questo governo ci sta dicendo che i diritti non sono uguali per tutti.