Quando si parla di caporalato in agricoltura, il pensiero corre subito alle campagne e alle tendopoli del foggiano e del casertano. Pochi immaginano che il fenomeno possa riguardare la Lombardia. Eppure, la “locomotiva d’Italia” è considerata, con i suoi 14 miliardi di euro di valore della produzione agro-alimentare, la prima regione italiana del comparto, ma, allo stesso tempo, una delle regioni più colpite da procedimenti giudiziari riguardanti il caporalato.
Ad accendere i fari sul fenomeno è una ricerca dell’associazione ambientalista Terra! dal titolo “Cibo e sfruttamento” che ha preso in esame tre filiere produttive importanti, quella della carne di suino, delle insalate in busta e, infine, quella del melone, produzioni che proprio in Lombardia vedono il loro centro nevralgico. Il sistema utilizzato è quasi sempre quello dei “serbatoi di manodopera”.
False cooperative si presentano con tanto di visura e bilanci stilati alla perfezione, così da accreditarsi agli occhi degli imprenditori agricoli. Chiuso l’accordo, scaricano i braccianti in aree poco distanti dalle tenute agricole per non dare nell’occhio e li fanno incamminare verso i terreni dove chineranno la schiena per l’intera giornata.
Lo schema
Nelle fasi più acute del ciclo produttivo l’imprenditore ha bisogno di forza lavoro immediata e flessibile. Le cooperative coagulano queste aspettative, occupandosi del trasporto nei campi, dell’alloggio e del cibo. Molti braccianti convivono in uno stesso appartamento in condizioni estremamente precarie. Otto o nove persone stipate in pochi metri quadri.
Il costo per un posto letto è di 100 euro. Non ci si può permettere di più. L’affitto della casa è generalmente intestato ad un’unica persona – il caporale o il referente della cooperativa – che incassa le quote traendone un guadagno. Altro comparto indagato è quello della cosiddetta IV gamma, vale a dire i prodotti ortofrutticoli (spesso le insalate) confezionati, pronti al consumo e in vendita tra gli scaffali della Gdo, particolarmente sviluppato nel Bresciano e nella Bergamasca.
Se, da un lato, questo sistema porta con sé i vantaggi dell’efficientamento e della standardizzazione, dall’altra si trascina tutte le falle del sistema industriale: ritmi di lavoro massacranti, esternalizzazione del lavoro, giungla di contratti.
Zona grigia
Il cosiddetto lavoro grigio, spiega Terra! nelle settanta pagine del suo report, è la piaga che sembra maggiormente in espansione e si manifesta in tante forme, come nell’espletamento da parte del lavoratore di mansioni diverse o superiori da quelle stabilite nel contratto.
Ma più generalmente il lavoro grigio si basa su un tacito – e spesso obbligato – accordo tra il lavoratore e l’imprenditore agricolo: l’imprenditore si assicura un lavoro continuativo tutto l’anno, ma non registra mai più di 180 giornate, il numero necessario ad accedere alla disoccupazione agricola. In questo modo, paga meno tasse e costringe il lavoratore in una condizione di subalternità.
Quest’ultimo, dal canto suo, potrà godere degli ammortizzatori sociali previsti grazie a un numero di giornate registrate che però, spesso, è di molto inferiore a quelle effettivamente svolte. Per le giornate che eccedono, sarà retribuito in modo informale (in nero). Così a fine anno, il salario complessivo del bracciante è il risultato della somma di tre voci: quella delle giornate segnate in busta paga, la quotta data in nero dal datore di lavoro e la disoccupazione agricola. La maggior parte della forza lavoro sfruttata è costituita principalmente da immigrati, con una forte prevalenza di indiani e pachistani.