Riuscire a trasformare la costruzione di un ponte in un’opera di ideologia è sinonimo dell’arretratezza ideologica e del dibattito del Paese. Normale quindi che il Ponte sullo Stretto sia soprattutto un tassello di propaganda – uno dei più costosi – che viene agitato per rappresentare un paradigma. Naturale anche che il costosissimo mausoleo che a destra da decenni sognano di intestarsi sia finito tra le mani di Matteo Salvini, campione della politica così schiacciata sulle immagini da avere perso qualsiasi simulazione dei contenuti.
Al di là della propaganda spiccia sul “partito del no”, rimane sempre la stessa domanda: a chi conviene il Ponte sullo Stretto?
Quei 14,6 miliardi che andranno spesi per la costruzione meriterebbero però anche un’analisi dei costi e dei benefici e anche per questo vale la pena leggere il report “Lo Stretto di Messina e le ombre sul rilancio del ponte” pubblicato nei giorni scorsi da un pool di esperti di Kyoto Club, Lipu e Wwf, con il contributo di numerose associazioni ambientaliste e della società civile, tra le quali il Coordinamento Invece del ponte – cittadini per lo sviluppo sostenibile dello Stretto.
All’interno delle 50 pagine si ricostruisce l’incredibile ritorno di un’idea riesumata dal governo Meloni con qualche riga all’interno della Legge di bilancio, dopo avere revocato la liquidazione di una società che da semifallita si ritrova a essere ora capofila nella realizzazione e gestione dell’opera (Stretto di Messina SpA) e dopo avere calpestato giudizi civili pendenti per resuscitare il progetto del 2011 di Eurolink.
Nel rapporto non si legge solo dell’assurdità di voler erigere un ecomostro di Stato in una delle zone più sismiche d’Europa ma si sottolineano i vantaggi economici inestinti che la rendono un’operazione fallimentare. Il progetto del ponte con una luce di 65 metri (com’è quello attuale) bloccherebbe il transito delle navi portacontainer maggiori in rotta verso Gioia Tauro, il più importante scalo italiano e allungherebbe il tragitto delle navi provenienti da Genova, Napoli, Livorno e Salerno.
Secondo gli ambientalisti, in base alle norme nazionali ed europee non si può poi riattivare l’intesa con il general contractor Eurolink, sciolta per legge nel 2013, ma occorre rifare la gara. Dal valore originario di 3,9 miliardi del 2003, il costo di riferimento sale oggi a 6,065 miliardi e il tetto entro può crescere senza gara (in base al Codice degli Appalti e alla direttiva 24 del 2014) è poco più di 9, molto sotto i 14,6 (quasi un punto di Pil) indicati dal governo.
Le carenze di analisi del governo fanno sì che i privati non siano disponibili a partecipare all’opera, tanto che il piano economico e finanziario pone a totale carico pubblico il rischio finanziario sia dell’investimento che della gestione. Non ripagheranno l’opera i pedaggi, non la ripagheranno i pochi pendolari quotidiani (circa 4.500) e le ricadute occupazionali sarebbero solo a breve termine. Quindi, al di là della propaganda spiccia sul “partito del no”, rimane sempre la stessa domanda: a chi conviene il ponte?