di Mimmo Mastrangelo
Il calcio, quello che conta, quello delle grandi platee sta messo male. Molto male. E chi dovrebbe denunciare questo stato comatoso non lo fa con l’insistenza e il peso che si vorrebbe. Ciononostante, a chi ancora vuol bene al gioco più bello del mondo, a chi pensa che tirare a calci ad una palla è tanto allegria quanto arte, creatività, talento, bellezza (si pensi alle prodezze dei Garrincha, dei Maradona, dei Rivera, dei Meroni, dei Cassano, dei Totti…), a chi gli rode il fegato nel constatare che lo spettacolo negli stadi non è più quello di una volta consigliamo di leggere “A porte chiuse”, fresco di stampa per la Sperling & Kupfer e di cui sono autori Lorenzo Contucci e Giovanni Francesio, i quali non sono giornalisti, né addetti ai lavori della materia, ma avvocato penalista il primo e scrittore il secondo (sempre per Sperling & Kupfer ha già pubblicato qualche anno fa “Tifare contro”).
Sodalizio casuale
Ma prima di entrare nel merito dell’opera, va detto che i due autori hanno scritto il libro senza mai incontrarsi e vedersi fisicamente. Nella prefazione svelano infatti di essersi conosciuti a distanza e, nel corso degli anni, di essersi “scoperti uniti da un’identica passione, quella per il tifo calcistico e per la dimensione popolare e collettiva della partita, per lo stadio vissuto come luogo di vera e spontanea aggregazione”. Contucci e Francesio nonostante non facciano parte dei salotti televisivi della “discussione pallonara” riescono a mettere in brache di tela tutto il pianeta calcio nostrano. E’ salutare la lettura delle loro pagine alla stregua di quanto è stomachevole seguire ancora le chiacchiere sul nulla di programmi della domenica che presentano con saccenteria schemi e schemini sulle dinamiche di gioco delle partite. Contucci e Francesio partono da una loro convinzione-epigrafe: “Volevano cacciare i violenti dagli stadi – scrivono – Hanno cacciato tutti tranne i violenti”, infatti “A porte chiuse”, senza parlare di intrighi o di retroscena del calcio truccato – toccano il delicato tema dello svuotamento dei nostri stadi e, dunque, del fascino che poteva avere (un tempo) il partecipare ad una partita, seguirla da semplice appassionato o ultras. “Gli stadi italiani negli ultimi anni, hanno smesso definitivamente di essere un luogo di aggregazione. Hanno smesso di essere un deposito, uno dei pochi rimasti di cultura popolare, di esperienza di vita collettiva vera. Sono diventati luoghi tristi, grigi, vuoti. Si riempiono solo in poche occasioni quando ci sono incontri importanti per l’alta classifica della massima serie o gare di cartello delle Coppe europee”. Di chi è la responsabilità della fuoriuscita degli spettatori dagli stadi? E’ causa della violenza di certi tifosi, delle televisioni (che hanno impoltronito i tifosi) o del calcio spezzatino giocato e distribuito per tutti giorni della settimana e a tutte le ore?
Soluzioni pasticciate
I due autori una risposta ce l’hanno: in Italia è diventato brutto andare allo stadio perché è vero che c’è violenza ed è asfissiante la copertura delle immagini sulle reti televisive, però “per molti, troppi anni, nella gestione del calcio, quello vero, quello dal vivo, si è andati avanti a tentoni, con soluzioni pasticciate, applicate sempre in circostanze di emergenza e basate sui più grotteschi luoghi comuni evitando con cura di analizzare approfonditamente il fenomeno e senza prendere in considerazione l’ipotesi di un sensato piano di ristrutturazione di tutto il sistema e di un ragionevole investimento”. “Il problema è tutto qui – sentenziano i nostri “non esperti” pallonari – Nessuno vuol riconoscere che la tessera del tifosi è servita solo per svuotare ulteriormente le gradinate, che il tanto decantato (e famigerato) Daspo è un provvedimento che non ha risolto un bel niente e mai risolverà alcunché. Come dare torto a Contucci e Francesio, come riconoscere che il loro lavoro è molto più utile delle reprimende e degli annunci di chi piange (senza lacrime) che il calcio va urgentemente salvato?