di Carola Olmi
Saremo pure una delle otto più grandi potenze economiche del mondo, ma la Borsa di casa nostra non è da grande Paese industriale. A fare i conti è l’Ufficio studi di Mediobanca, secondo cui Piazza Affari occupa il 23esimo posto fra le principali Borse mondiali con una capitalizzazione di 353 miliardi di euro alla data del 30 giugno 2013. Ora, anche considerando il parziale recupero delel ultime settimane, con gli indici saliti in scia a quelli mondiali, il rapporto conferma che tra economia reale e mercati finanziari in Italia resta un abisso, di anni in anno più profondo. Se dieci anni fa, alla fine del 2003, Piazza Affari era infatti undicesima al mondo con 490 miliardi di euro di capitalizzazione, pari al 38% del Pil di allora, oggi l’incidenza sul prodotto interno lordo è pari solo al 22,6% mentre l’incidenza sul valore totale delle Borse mondiali non arriva nemmeno all’1% fermandosi allo 0,9%.
Dietro al Messico
Le ultime in ordine di tempo a scavalcare Piazza Affari sono state quest’anno le Borse di Malesia e Indonesia, mentre il Messico era già riuscito nel sorpasso un anno fa. “La crisi di Milano – ha spiegato all’Agenzia di stampa Radiocor Matteo Pizzingrilli – parte in realtà da lontano se si pensa che negli ultimi dieci anni, dalla fine di dicembre 2002 al 16 ottobre 2013, Piazza Affari ha avuto un rendimento complessivo negativo del 5,6% e un rendimento medio annuo pari a -0,5%”. A paragone Parigi ha registrato un +4,2% annuo (+55,8% complessivo), Madrid un +4,4% (+59,3%), e il Dax di Francoforte un +8% annuo che diventa addirittura un rialzo complessivo del 129,8%.
L’Asia vola
Le Borse migliori sono ovviamente quelle dei paesi emergenti con l’Indonesia a fare da capolista con un +957,1% in dieci anni (+24,4% annuo) seguita dal Messico (558,6% e 19,1%) e dall’India (511,2% e 18,2%). Colpisce anche il dato relativo all’appeal di Piazza Affari per le aziende non ancora quotate. Dal 1998, anno di privatizzazione della Borsa italiana, senza calcolare l’effetto Expandi, il saldo netto è nullo, vale a dire che si è registrato un numero di ingressi pari a quello delle cancellazioni. In termini cumulati, guardando dal 1990 ad oggi, il listino si è impoverito di 29 unità ed è stato salvato solo dell’apporto (33 titoli, di cui 45 iscrizioni e 12 cancellazioni) dell’ex nuovo mercato, senza il quale il saldo sarebbe negativo per 62 titoli. I motivi? In prima battuta la proverbiale diffidenza dell’imprenditoria italiana a far guardare dentro i bilanci aziendali. Ma poi ci sono le procedure per ottenere l’accesso ai mercati. Procedure ancora complesse e costose, che inevitabilmente scoraggiano i gruppi potenzialmente interessati a farsi quotare. Ciò non di meno per il prossimo anno le aspettative di Borsa Italiana sono ottimistiche. Complice un barlume di ripresa, diversi gruppi potrebbero avviare l’Ipo, anche per raccogliere sul mercato – e dunque a un prezzo migliore – quei capitali che il credito bancario non eroga o eroga a un prezzo elevato.