Mi dispiace per la morte di Gianni Minà. Però erano tanti anni che non lo vedevo più in televisione.
Edmondo Ravelli
via email
Gentile lettore, non lo vedeva perché la Rai non lo faceva lavorare da circa 20 anni, e men che mai le altre emittenti. Un “democratico” bavaglio. E neanche i giornali, tranne rare eccezioni, lo intervistavano. Eppure avrebbe avuto molte cose da dire: per esempio, era un grande conoscitore dell’America latina, ma nessuno si è sognato di interpellarlo sul Venezuela, quando gli Usa sostennero il tentato golpe di Guaidò e affamarono il Paese con le sanzioni. Su di lui era scesa una cappa di silenzio. Ora che la morte gli ha chiuso la bocca per sempre, i giornaloni e la Rai – farisei, sepolcri imbiancati – lo pongono nel pantheon dei grandi accanto a Biagi, Montanelli, Bocca. Adesso ricordano che era l’intervistatore dei grandi personaggi del pensiero antagonista. Come il cubano Fidel Castro. Come lo scrittore Garcia Màrquez. Come Maradona, l’indio che si era emancipato grazie al suo talento, pur pagando un prezzo ai demoni interiori (“Che ti succede, Diego?” gli chiese in un’intervista). O come Mohammed Alì Cassius Clay, che rifiutò il servizio di leva in Vietnam e preferì privarsi del titolo mondiale e scontare tre anni di galera: “Perché dovrei sparare ai vietnamiti? Loro non mi hanno mai chiamato ‘negro’. Il mio nemico è la gente bianca che mi opprime in America, non i vietnamiti o i cinesi”. Minà aveva solo il suo blog per scrivere: pacifista convinto, ergo pericoloso, nell’ultimo post spiegava che “per sapere qualcosa di vero, ormai ascolto quasi solamente Radio Vaticana”.
Inviate le vostre lettere a: La Notizia – 00195 Roma, via Costantino Morin 34 redazione@lanotiziagiornale.it